VARIAZIONI SUL TEMA
(AragnoEditore, 2014)
ISBN 978-88-8419-672-9

“Qual è il tuo tema,
la tua chiave preferita?”
“La vita, la vita…”
               
Osip Mandel’śtam

 

 

 

LA NOTTE BIANCA

 

MAI PIÙ 

Il termine ridotto
all’incredibile
con tutti i suoi sospesi,
rimorsi e sottintesi.
Un punto fermo
al resto che si muove,
pensato e ripetuto,
pronunciato
come dato impossibile:
“Mai più”.
Per ciò che si poteva
e che non fu.

 

NATURA UMANA

Ha la natura umana
una tendenza:
il segreto bisogno
di sollevarsi in alto
distaccandosi dal suolo
per tornare in possesso
di qualcosa
che le sia stato tolto,
magari come ipotesi
di un suo diritto
colto in potenza,
o che aspetti di averlo
quasi promessa
come parte nobile
della sua essenza stessa.

 

MEMORIA

La memoria cede,
annaspa e caracolla
gonfia di corpi inerti,
piena di detriti
anarchica e impaziente
tralascia quasi tutto
e non le importa niente:
resiste, si difende
e scarica ogni peso
a fior di pelle
nessuno la costringe
nessuno la controlla
se no lei preferisce
spegnersi da sola
tagliarsi ponti
e connessioni
fino ad affogarsi
da ribelle.

 

SERVI DEL MONDO

Le falsità
dell’intelletto,
gli oscuri mostri
del pensiero,
l’effetto
delle vane immagini
sul cuore,
l’eterno ricorso
alle risorse dell’amore,
l’ombra del vero eluso
senza reale soluzione.
Con solo un dato certo
in fondo
neppure più
la previsione,
del tempo perso
per servire il mondo.

 

OGNI MINIMA CREATURA

Ogni minima creatura
bella o brutta,
luminosa o impura,
ciascuna col suo carico
avuto in sorte,
e nel prodursi vistoso
di vita con la morte
tutto così labile e tutto
tanto più grandioso
e nello stato perenne
del contrasto
tutto così piccolo e
tutto così vasto,
lo sguardo abbagliato
del bianco sotto al nero,
incerto e scivoloso,
dentro la luce oscura
del mistero.

 

IN USO DI LITOTE 

“Non offendendo
non essere offeso
e, non godendo,
nemmeno patire”
...un sofisma sottile,
non c’è che dire,
però velato
dall’alone debordante
della litote che,
con la frusta dell’assenza,
ti marchia intanto
e ti percuote.
Quel che è distrutto
patisce la ferita
e quello che distrugge,
ciò nonostante,
non gode affatto
nel suo mancante
comunque della vita.

 

CHIUSI NEL SOGNO

Nati dal corpo
di natura,
distaccati e alzati
in volo,
ma ricaduti in ansia
e per paura.
Eppure,
amando intanto
la vita per se stessa,
disamorati andando
delle cose umane
abituati a rimirarle,
quelle, da lontano
e, nel distacco,
vedendole più belle.
Disposti a sopportare
disagi e strazi,
misfatti ed infortuni.
Chiusi nel sogno intatto
di uscirne fuori,
chissà come, immuni.

 

L’OGGETTO DEL PENSIERO
  
È un’astrazione
e non un fatto:
l’oggetto
di un pensiero,
un concetto più che
un sentimento,
uno stato desiderato
inseguito dalla mente
eppure insoddisfatto,
perduto prima
di averlo conquistato
e, dunque, mai goduto
(sempre sul punto
di essere...) creduto
e delirato,
un atto del volere:
il senso del piacere.

 

NECESSITÀ DELL’INGANNO

Da me forniti a me 
e usati, per dovere,
via via lasciati andare
tali e quali a fondo.
Benché sia inutile sapere
che il sole si è levato
o tramontato, e che fa
caldo o freddo,
e qua e là è piovuto
o nevicato
in giro per il mondo.
Mi faccio imbrogliare,
io stesso, dai segnali
partiti dall’oggetto morto
per l’amore
che ancora porto,
mio malgrado,
ai vizi capitali.

 

NELL’ATTESA DELL’EVENTO

Il nome
non ancora pronunciato:
ciò che, nel giro
della mente,
ogni volta
si ripete per intero
eppure non è stato...
in un innesco continuato
dell’azione rimasta
(intricata e sciolta
dentro i suoi confini)
nell’appiglio
dei suoi stessi uncini.

 

IL TEMPO

Il tempo è un fiume
che scorre lento,
placido a tratti,
ma solo nel suo corso
di pianura,
perché da giovane
corre veloce
e d’impeto saltando
trabocca e spande.
E tuttavia, placato,
è pronto a ripigliare
la sua forza
e intorbidando
l’acqua chiara
a rompere in furia
gli argini e le sponde,
a strabordare
e, travolgendo e
sradicando tutto,
fuori dal suo corso
ad affogare.

 

UNIVERSO

L’infinito esplodere
continuo
l’espansione e
il giro palpitante,
la legge che presiede
agli scambi di energia,
un mare ribollente
di luce e di calore,
spazia nel cielo
un lampo
che slitta via inghiottito
dentro l’imbuto
che lo saetta in là
dall’altra parte
– l’inconoscibile remoto –
da concavo a convesso,
ma l’universo
ha solidi confini
che dall’eccesso
piegano incurvando
nel lungo tunnel
in salita circolare
che avvitando su se stesso
trascende e si contiene
a replica dell’elica infinita,
codice e radice,
cassaforte della vita.

 

LA GIOIA E IL LUTTO

L’accendersi e
lo spegnersi (per caso?)
della vita,
la traccia luminosa,
la scia che lascia
dietro a sé
quello che è stato,
amato o non amato
comunque sconosciuto,
la gioia e il lutto:
precipitato, tutto,
nel cieco vaso
che posa tra le braccia
del suo buio.
L’orma appassita
eppure, intanto,
rifiorita di ogni cosa.
L’ombra e l’odore,
neppure più il colore,
il pensiero pensato
della rosa.

 

L’INTANTO

L’origine segreta,
la fessura,
la pura scaturigine,
la fonte,
di un proiettarsi al meglio,
al positivo.
In ciò che, stante,
creduto per durare
da vivo poi diventa
stato inamovibile,
cessato.
Ma intanto
è ancora geiser,
soffione boracifero,
spumante.
Per poi tornare
in equilibrio
dopo il getto.
La vita che non giace:
l’effetto e il movimento
della pace.

 

NAVIGAZIONE

Nel gioco mobile
di specchi
sogno e realtà,
moltiplicandosi
nell’effetto miscuglio
– cocktail o frullato,
intruglio o elisir –
hanno inventato
ed, ecco, rivelato
l’universo della vita
in una sfida stravagante,
facendo eterno andare
di ogni istante,
oceano del poco mare
attraversato
e transatlantico
del piccolo natante
che vi si è sopra
avventurato.

 

FELICITÀ

Di fronte
a ciò che muta
e dura senza posa,
non vale l’intenzione
magari scrupolosa
se non proprio morale
di chi, a metà del corso,
si pone la questione
e incerto si risponde
che, messa in conto
solo massimale,
la felicità
invece si confonde
con la dissolvenza stessa
di ogni cosa.

 

VIOLENZA

La violenza che gonfia
e scoppia fuori
saltata via la crosta,
la potenza mortale
di aguzzini e stupratori
in versione pressoché normale,
con le mani affondate
nel sangue di una vittima
ogni volta rinnovata
e lo scempio, poi,
della carne martoriata:
agnello di una propria
colpa originale,
la ferita a tutto tondo
con su marcata
l’intenzione di farne
l’ostensione.
Il coltello
del cupo sacrificio rituale
nei profani scannatoi
di questo mondo.

 

SVEGLIO

Aspetto sveglio il mondo
nel momento
del suo stare più deserto
per spiarlo meglio
a cielo aperto
in ogni suo girone
di miseria e di splendore
al vento della pura
esplorazione
e con l’effetto di imparare
pur con qualche errore
i trucchi del mestiere,
per mangiare e bere
i molti pasti e succhi
che si è offerto di darmi
intanto, bontà sua,
in concessione
da provare alternati
nel piacere e nel dolore.

 

FINALMENTE
  
Ti cerco, mi dicevo,
ma non so dove trovarti.
E, stanco, continuavo
a andare avanti.
Passavo le mie notti
in bianco, guardando
con gli occhi fatti vani
da una benda, toccando
con i guanti sulle mani,
tirando i fili solo da lontano.
Se ormai non ci contavo,
speravo tuttavia
che un giorno o l’altro
sarebbe capitato
a me che lo leggevo
nell’aurea vicenda
di qualche fortunato.
E ho perso chili e anni
ma finalmente l’ho imparato
che, per tenerlo,
non dovevo pretendere
di averlo in cambio.
Perché niente
di quello che si perde
è mai perduto per intero
niente di quanto pare dorma
sta dormendo e niente poi
di ciò che muore
è mai davvero morto.
E, se quasi da incosciente
me ne sono accorto,
cerco adesso di seguirne l’orma:
la vita morendo vive
e si trasforma.

 

TRACCIA

Non lo sapevo, no,
ma era più importante
ciò che nel ricordo
non aveva trovato
un’immagine costante
ed era scivolato via
perdendosi nel tempo
però con una traccia
dietro di sé
un’orma labile
gonfiata dal riflesso
dell’analogia
di colpo ingigantita
restituita in pieno
alla sua vita.

 

RIMPIANTO

Rimani e non nasconderti,
specchio del mio cuore
offeso e traditore.
Non lasciarmi.
Ti riconosco e in te
reclamo ancora
la parte mia migliore.
E quello sono io
come’ero allora
ma, nel mio farmi
vecchio, adulterato:
distratto, disonesto,
mentitore. Eppure,
sotto il peso dell’errore,
di nuovo sulle tracce
del passato,
per ritrovarmi
al posto destinato
dalla promessa antica.
E, poi, qualunque cosa
dica e sia finora diventato,
per quanto io protesto
di rimpianto, resto e
mi sforzo di restare intanto
uno che non smette di cercare
(me beato!) quello che
non ha fin qui trovato.

 

TARDI

Quanti deserti
ho attraversato...
Mai, per un attimo neppure,
arreso all’evidenza
della mia ferita.
Io, partito debole
e incerto sui bersagli
senza vera meta e
senza una ragione,
capace invece
contro la mia attesa
di trarre l’energia
dal vuoto e dal dolore
destinato ad imparare tardi
come analfabeta
molti segreti dell’amore,
senza previsione
e senza meta
diventato con sorpresa
(strana la mia sorte)
via via più forte per la vita
avvicinandomi alla morte.

 

ABBAGLI

Ti abbagliano
come fate morgane
create dagli occhi
per una falsa ragione,
ti sciamano accanto
in forma più ardente,
ti chiamano a sé
con le loro maliose
campane,
per diventarne il padrone...
e ti ingombrano intanto,
ti tirano a fondo
con la loro portata
non afferrabile a pieno,
fanno impellente il bisogno
di tenerle per te
e ti lasciano poi
nel momento stesso di averle.
Le mirabili cose
del mondo.

 

 

PAESAGGI CON FIGURE

*
La virtù di questa stanza
è che galleggia
sopra al mondo
e il riverbero di luci…
e il rimbombo
su dal basso delle voci
mi consegna ai sensi
un resto della vita beata
degli dei.
Tra i muri e l’acqua
alla deriva
fluttuando quassù in alto
luminosa e pura
senza più difese:
il gusto della gioia,
la voglia ritrovata
senza più ansie e attese
senza rimorsi
di omissioni o torti,
fuori dal corteo
dei troppi morti.

*
Luna piena,
rosso sangue,
un alone giallo intorno
come stesse bruciando
tutta la città:
braci accese
dentro al forno,
le sue tenebre
e le sue luci corte
tra di loro sempre
più vicine…
intrecciate e fuse
cancellando
il debole confine
tra vita e morte
da un capo all’altro,
da sopra a sotto,
tra notte e giorno
tra principio e fine.

*
Il soffio del vento
reso tiepido dal sole
fa vibrare in giù la luce
che balena in alto
tra le foglie
e una sciarpa fievole
di nebbia
galleggiando incerta
avanza nel velare
la convessità del tronco:
scricchiola la ghiaia intorno
sotto i tuoi passi svelti
e già a distanza
nel lento moto della schiena
che si volge e piega
sento il profumo
e il tuo sapore
nella pozza
d’ombra argento
dove annega
il mio malore.

*
Notte afosa
in riva al lago
squamato dalla luna
dove si aprono i monti
a fare da cintura
e stanno appesi
pescando
in fondo al cielo
immerso nel suo sonno
cupo e nero,
ponti sospesi dentro al buio…
ciò nonostante
per reazione,
più forte del timore
che si ha della paura,
presi dal ritorno di pensiero
o dalla provocante tentazione
di svegliare scuotendolo
il mistero.

*
La luna brilla netta
nella luce del crepuscolo
sopra la chioma della quercia.
Tutta la parte bassa
del folto del giardino
resta nell’ombra
e al buio pure lei
con la sua testa
annegata dallo scuro
ma il cielo in alto
ancora sveglio
e ripiegato avanti
è azzurro puro
e ondeggiano lassù distanti
fremendo due aquiloni…
Chi si aspettava
che l’amore
obbligasse a render conto
delle proprie azioni?

*
L’ombra che gronda folta
come muschio grigio
scivolando giù dagli alberi
nel fondo del giardino
mi ha già ai tuoi occhi
cancellato
sprofondato nel buio
di zaffiro
facendo irraggiungibile
di colpo la distanza
che ci separa da vicino.
Così tutto è silenzio
qua attorno in giro:
non un rumore,
né una parola,
né un sospiro.

*
Veleggia la mezzaluna
su nel cielo e scivola
con il fruscio di un gesso
sopra il nero opaco
della gran lavagna:
una polvere finissima
di luce intorno
mentre io affondo
dalla sponda giù la mano
che lucida si bagna
contro l’onda e brilla l’acqua
da cui guizza senza peso
un pesce attratto in alto
dal miscuglio luccicante
di stelle e di stelline
nel silenzio pieno e arreso
di una notte sognata senza fine.

*
L’aria è più fresca
di poco prima,
dalle finestre del caffè
rimasti i vetri aperti
scivola fuori
una musica distante
lenta e contagiosa
nel suo pigro andante
palpitare ai cuori:
seduti al tavolino
svuotati e inerti
senza più parlare
nella penombra
che ormai confonde
le mani e i visi
sei tu che, fatto il salto,
superi, non vergognandoti,
lo scoglio.
“Se anche non mi ami”
dici,
“io ti voglio”.

*
Freme l’aria calda,
spira appena sollevando
il lieve palpito che emana
e la caligine filtrando
rende quasi al tatto
solidi e ribelli i raggi
di un sole che si è fatto
ormai morente
e mentre tu mi passi
la tua mano
leggera tra i capelli
la fine della vita
appare più lontana,
quasi assente,
nel paradosso di ciò
che muta da com’era,
mentre il cielo vira
al rosso fiamma della sera.

*
Frustando l’aria
obliqui i fiocchi
piombano giù induriti
colpendo come proiettili
le nostre mani e i visi,
bucando a terra
intorno la prima neve
e in basso
la figlia dell’inverno
da mite che già era
crepitando
diventa dura pure lei,
un sasso,
crescendo dal suo frutto
finché la lama del vento
si fa poco alla volta
piatta e larga
addormentandosi del tutto.

*
Un vento sordo
sale su dal mare
ingolfato dai pini 
e insieme rilanciato
gonfiando la tenda
dalla soglia della stanza
e il percalle palpita
sospirando come un seno
con l’effetto di portarmi
un odore acre e denso
come quello di sudore
addosso sulle ascelle
e, nel battere continuo
quasi schiaffeggiando
a tormentarla, il sapore
lì della tua pelle
con la voglia di stringerla
e graffiarla.

*
Lasciando la sua cesta
per il più comodo divano,
il mistero a un tratto
è sciolto e chiaro il fatto
che proprio lì sulla terrazza
aperta nel giardino
col pino e il leccio
che allungano i rami
sempre più vicino
in braccio al verde
la vita cosmica respira
e che lì palpita davvero
il tutto per intero
e il tutto è colto
–  il tangibile, sì,
come l’arcano –
si manifesta in lui:
Moretto, il gatto nero
che cerca avido
il contatto della mano.

*
La terra a un tratto
brilla d’oro
sulla strada che è deserta
piena solo dell’odore
di polvere e di asfalto
e poi dal niente
ecco pullulare, 
chissà mai da dove,
fuori la gente…
ma le figure incerte
sembrano andare
senza avere meta
mentre il crepuscolo
si è già tinto intorno
del suo nero opaco
contro le nuvole
fatte di marmo
e qualcosa
o qualcuno da lontano
sembra chiamarle
tutte altrove,
queste e quelle, fuori mano
sotto un cielo
sempre più cupo
scorticato dalle stelle.

*
La distesa ondeggiante
delle terre…
la vista liquida
nel sole da distante
e il silenzio immobile d’estate
addormentato
dal ronzare degli insetti
dal frinire del canto di cicale
vapora denso
tutto nell’abbaglio
e a trasformare il quadro
niente vale:
torpide giornate,
l’una all’altra uguale.

*

Non lo so
se è stato il vento
che strappava via le foglie
nel preludio acquoso
dell’inverno…
tra le bave di fanghiglia
camminando
mi hai fermato
strappando pure tu,
ma solo il bavero
del mio cappotto:
la tua solitudine,
mi hai detto,
è cominciata
tra le mie braccia
sdraiata a letto sotto di me,
fissando il rosa
delle tue unghie
in mezzo ai miei capelli 
e cosa peggio ancora
la tua faccia, alzata
guardando sullo specchio
l’immagine di te disfatta,
una calza tirata più su dell’altra,
gli occhi impiastrati,
la vestaglia addosso
tutta sgualcita… di fronte
al niente che sentivi
più smarrita, vuota
e grigia ti appariva
la tua vita.

*
Il rosso del tramonto
scende a precipizio
dentro il buio,
un blu profondo e vellutato
che si allarga
a macchia d’olio:
ognuna delle due figure
sola si staglia
nero inchiostro
contro il cielo inargentato.
Lei mormora tra i denti
qualcosa smozzicato
che scivolando
affoga nei singhiozzi
ma lui è inerte e tace
nella rassegnazione,
e pare che ostinato
comunque le rifiuti
anche solo una parola
o un gesto di conforto
alla disperazione.

*
Batte il sole
sopra la facciata
e inonda
l’interno della stanza
infilandosi curioso
tra le pieghe
del nostro letto sfatto
e da lì il calore
stagnante che cresceva
mi spinge ormai da solo
nella brezza del terrazzo
dove il mare scintillando
graffia gli occhi
come il dorso squamoso
di un gran pesce volante.
Se ne è andata via
con aria superiore
congelando nel distacco
il mio fervore
e dietro a quella cortesia
scopro la durezza
e un sangue freddo…
ma non voleva, no,
si rifiutava e non lasciava
neppure intravedere
quello che sentiva
e che provava.

*
L'ultima sera insieme,
in riva al lago:
la luna che gioca con la luce
scavando immagini nel buio.
La sua figura delicata,
che appena mi appoggia
sopra il fianco.
E quel profumo
che, a tratti,
mi riesce di ingoiarle
dal respiro.
Cerco di tenerla
e lei mi scappa via.
Guizzando è scivolata
fuori dalle braccia
con il suo corpo di sirena.
Le onde lambiscono
la riva silenziosa.
E, a incorniciare sulla scena
il suo rifiuto,
il suono del fruscio
come fosse, a sciabordare,
un'acqua di velluto.

*
Dal mare in corsa
le nuvole si infilano
strisciando tra le case,
inondando la città
come torrenti.
E, non appena il lampo
squarcia il fumo,
dal buio pesto balza su
la vasta massa
della cattedrale.
La prendo tra le braccia,
baciando quelle labbra
che bruciano com’è
già in fiamme tutta quanta.
Lei che, al bruciare,
fa invece da pompiere
di fronte all’evidenza
di perdere con me
qualunque padronanza.
E, nel respingere le mani
che vogliono tenerla,
“Vedrai che passerà” mi dice,
“come devono
per forza anche passare
le ore amare e le tristezze
e le ferite del dolore”.

*
Piove. E,
insieme con la pioggia,
perfino il buio
sembra venir giù
nel turbine di cenere bagnata.
Coprendo il viale,
il marciapiede, la città.
Con il sapore crudo,
in aria, dei primi giorni
dell’aprile.
Le luci dei fanali
ardono più smorte
come a rimpiangere
qualcosa di perduto
e la gente va via di fretta,
senza guardare avanti,
sempre più smarrita
con la testa giù
sotto gli ombrelli.
Pare che stiano
fuggendo tutti quanti,
trascinati da chissà
quale paura delle cose
e della vita che verrà.
Con gli occhi vuoti,
cercano il calore
della luce che è sparita.

*
Improvvisa arriva l’alba
con nuvole color petrolio
nel cielo verde panna.
Soffia il vento sul giardino,
fischia tra i rami
e tra i cespugli.
Scuote il tetto, a ondate,
batte sdegnoso alle finestre.
E io mi alzo su dal letto
per farlo entrare dentro,
a sollevare polvere e
a scompigliare carte
nella stanza della mia ferita.
Che il tempestoso aprile
faccia lui da testimone
al cieco sottosopra della vita.

*
Una nuvola più scura
s’alza di sbieco ad occidente,
tagliando il sole in due metà.
Sembra ferma e invece,
oscillando come un’altalena,
lo avvolge per intero.
Di corsa il buio
copre tutta la città:
restiamo lì a guardare
il nero che balena
in due appoggiati
con la fronte al vetro
e si dilegua tutto
come se non fosse
mai esistito.
Il cielo è attraversato
dal filamento viola
e l’aria è scossa
dal tuono che ripete
lo scoppio di lì a poco.
Chiusi dentro la prigione,
eccoci presi più contenti
dietro al pensiero
di una liberazione
dallo stato di attesa
e di tensione in cui sembrava
di essere ormai precipitati.

*
L’aria ristagna
solida e rappresa,
nonostante la notte
pieghi ormai verso il mattino.
L’afa, il silenzio…
l’indolenza che ha invaso
le sue membra,
la fanno percettiva.
Due piccole fessure
gli occhi,
la testa abbandonata indietro.
Con uno sguardo intenerito,
nel buio che le sprofonda
intorno
dentro l’abbraccio
del giardino,
quasi implorante
mi tiene per le ascelle:
“Lascia che mi resti”
dice, “il tuo sudore
sulla pelle”. 

*
È immobile, la notte,
sopra di noi
e tutto tace intorno,
meno la voce
del fiume mormorante.
La distesa del cielo nero,
stellata sopra la testa,
ci si mostra nuova
come a vederla
per la prima volta.
Lei mi sorride
con la sua bocca piena.
E lì nel buio
mentre si tende e ascolta,
il suo corpo manda luce
e vedo palpitarle le narici
quando inspira sussultando
nel sollevarsi contro di me
sciolta dall’emozione
della stretta,
tutta tremante e aperta
tra le mie braccia
non più smarrita.
E quel profumo
di foglie marce che la corrente
ci manda addosso
è l’odore stesso della vita.

*
Si ferma,
pallida e sottile,
e sta appoggiata alla ringhiera
con il suo sghembo casco
di capelli bruni
e la sua bocca
sempre più ostinata,
grande e rossa,
come grandi e scuri
sono gli occhi che scrutano
il paesaggio là di sotto
calcinato dalla nebbia
come biacca.
E quel suo naso
piccolo e superbo
le fa palpitare
intanto le narici,
inquieta e indispettita
con se stessa
senza che la scena
l’abbia distratta.
Non riesce mai a spiegarsi
le reazioni opposte
che vengo a suscitarle io.
Mi disapprova in tutto,
ma suo malgrado e
con stupore solo mio,
mi vuole perché è attratta.

*
Nel turbinio di neve
che rende intermittente
la luce delle strade
vedendola appoggiare
la schiena al muro
mi azzardo a carezzarla,
leggero, sui vestiti.
E lei mi prende
subito la mano
guidandola più in basso
e me la tiene stretta
dentro la morsa delle gambe
per poi lasciarla andare.
“Ma vuoi?” le chiedo
guardandola insicuro.
“Perché? Ti sembra forse
che non voglia?”
risponde lei
con un sorriso
che pare un altro
enigma dell’amore
da svelare.

*
Saliti all'alba insieme
su in terrazza,
va alzandosi dal fiume,
la nebbia, in giro per i prati.
Brandelli bianchi
e densi come il latte
vagano impigliandosi
mutando di continuo
il loro aspetto.
Sembrano abbracciarsi,
i lividi fantasmi
venuti su dall’acqua,
piegarsi giù in ginocchio,
levare al cielo
le braccia in maniche
che fluttuanti
stanno avvinghiate ai tronchi.
Come si fosse a un tratto
imposto un vincolo
di intimità tra noi,
rapiti nel silenzio
stiamo a guardarli
nel lento loro scivolare
non più interi
dentro la valle:
il senso di un segreto
che unisce sopra il resto,
figli coniugi e mestieri
respinti indietro,
lasciati ormai alle spalle.

*
Turbinano fitti, i fiocchi,
che nel posarsi a terra
sembra vogliano
coprire tutto il mondo.
Sto fermo lì a studiare
con sorpresa
la scena polverosa,
come fosse il vento
a sollevare
la quantità di particelle
appese a galleggiare.
Nel suo disordine apparente,
il pulviscolo di neve
rende in modo più emotivo
il disegno alla realtà
che va mutando
stato, luce e ora.
E, in quel continuo
trasformarsi
che non lascia niente
a una durata più di tanto
distesa dentro
il tempo della vita,
ogni cosa
nel suo stesso principiare
e starsene sospesa
mentre si colora appare,
appena cominciata, già finita.

*
In quell’intrico
di cespugli e piante,
già di per sé a imitazione
ospite invitante,
le sono scivolato
a un tratto addosso.
E lei ha subito risposto,
nell’aggrapparsi
timorosa a me.
A stringerlo così
nella realtà carnale,
pur nel suo modo
più arrogante,
il corpo appare
l’incarnazione stessa
del mistero.
Un soffio che abbia
preso in sé materia,
compresso e palpitante.
Ed è lì l’arcano della cosa:
nel mescolarsi per intero
a un’altra intelligenza e
nel baciare sulla bocca
una coscienza.

*
Alla finestra in bilico,
scostate le tendine,
per esplorare il tempo.
L’aria è calma e là,
tra un tetto e l’altro,
si apre un lembo
di azzurro luminoso
dove la luna
campeggia col suo globo.
Pochi momenti prima
le vivide colline
erano illuminate
dal lucido riverbero
e sciolte ancora
nel tremito di luce
dentro un velo.
Poi eccole già scure
stagliate in modo netto
a disegnare i dossi,
gli alberi, i cespugli,
come nere grotte
contro il cielo
che conserva
un minimo di azzurro,
ma che in gran parte
si è già tuffato
nel turchino della notte.

*
Chiuso tra i muri
del casolare bianco
che sta piantato
con il suo corpo
di sasso nella roccia
ancorato al vento
tra cielo e mare
al passo uguale
di tutte le stagioni…
può darsi sia soltanto
un altro modo, il mio,
per reggere da solo e stanco
l’urto violento della vita,
anch’io, come i monaci
chiusi nel distacco
delle loro celle certe
nella coercizione
ma senza l’obbligo
dell’atto volontario
senza scegliere con intenzione
la scelta loro di esclusiva,
da escluso intanto
in reclusione
contro il proprio desiderio
ma libero infine
dal suo imperio.

 

 

CAMERA OSCURA
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DIARIO DI NORMANDIA
(1975-1979)

 

Trouville, Calvados: 8 agosto

vecchie ville normanne
tra orti di meli
erba sabbia acqua

cielo panna celeste
azzurro lapislazzuli turchino
celeste panna latte

Ombra densa
per le ortensie di Trouville.
La scia di umido
non si disperde
neppure a mezzogiorno.
C’è odore di torte e di biscotti
sulla strada del passeggio.
La coppia al tavolino
è silenziosa:
bevono liquori e
mangiano frutti di gelatina.
Uno ha lineamenti regolari,
senza barba, e la pelle
con rapide striature,
tormenta con la mano
l’involucro della confettura.
L’altro è più giovane
e sorride al cameriere
tutte le volte che passa,
posa le dita tra i dolci
e si lascia sfiorare, distratto.
Il cane fa da padrone
su e giù per la veranda
intorno a ogni cliente.
Sale dal mare all’improvviso
un filo d’aria,
tra i tavoli di ferro
che sanno di ruggine lavata,
sotto le tende a righe.

(Dicono che quando
l’aria taglia dal mare,
gonfiando le tende
e i chiusi ombrelloni del viale,
è tempesta senz’altro
nel volgere di un’ora).

(di scale di volte di tono
nel suono nel cono di luce
s’arresta si rende al suo volo
spiccato tirato librato
di piuma di foglia
di freccia di lampo di fuoco)

(Nulla tra le mani.
Nulla che ti assicuri,
per dispetto? No,
piuttosto per fortuna,
di un luogo, di una storia.
Di un domani…)

(Ti accorgi all’improvviso
che le cose riescono a distrarti,
a tratti per lo meno, dall’ansia
e a porre tra te e la vita
lo spazio necessario a contemplarla.)

(In fondo, se ci penso,
tra riflessioni e piani
che faccio scivolare
volentieri a domani,
per dare ordine e senso
al caso,
su cosa poggia
l’idea che ho io del mondo?
Su un dito
dentro al naso.)

(Aspetta che il mare
sia diventato piscio
e allora capirai in extremis
cos’è un naufrago
che cede, inerte e nauseato,
alla fatica dei suoi remi.)

(Amante amato
da sé voluto
da sé lasciato…
per come l’hai pensato
e poi non l’hai tenuto
rischiando di ritrovartelo
perduto…)

 

Honfleur, Calvados: 10 agosto

filo di scogli
riemersi dal fondo
negli occhi del mondo

cielo smozzicato
a strappi e cuciture
viola rosato

La punta della scogliera
è una balena nera,
e soffio d’acqua
è il faro.
Bloccati in un eterno
avvio da terra
verso il mare aperto
anche se appare, a tratti,
la schiuma dei frangenti,
come una scia
segnata dal natante
sul turchino.

(Controlli, indugi,
attese a non finire
prima di spiccare
– anche se pare, a
poco a poco, sempre
più improbabile –
finalmente il salto.)

(È il taglio progressivo
delle presenze care o note,
il conto che comincia
a non tornare. Il margine
sempre più sottile,
man mano che si fanno
falle e vuoti tra file.)

(Non qualunque
e come sia.
L’ordito, eletto
e costruito,
l’infinito ridotto
a una misura, per
orgoglio, magari
per paura
limato e stretto
disteso dentro
al letto
dell’enciclopedia.)

(Sogni avventure
vecchie speranze e paure.)

(… piante parassite
scolorite con fusto
sottile che si attacca
ad altre piante
facendole morire:
sanguisughe.)

 

Honfleur, Calvados: 11 agosto

strisce di case
sulle riva Sainte-Catherine
verde-marcio marrone

cielo cupo nero
ferro grigio ardesia
madreperla latte

Sono blu
col collo a barca
i maglioni del negozio.
Lo scaffale è sottosopra,
non si trova mai
la taglia.
La ragazza tira forte,
fa passare qualche
maglia, poi sistema
anche i capelli:
ride e scopre
una fila quasi intera
dei suoi denti d’oro.
La vetrina dà sul porto
e lo specchio
riflette lì alle spalle
le incerate gialle
dei marinai che
attaccano gli ormeggi
e scaricano in coro
pile di cassette.

(La certezza
di non aver più fedi
è in quel trovarsi
volentieri, una mattina
indifferenti a tutto.)

(Resto, lo sento,
viaggiatore lento
di sola terraferma,
che scruta il mare di lontano
e ne controlla il movimento
ma c’è chi crede, qui,
che il mare incanti
chi lo guarda
e gli faccia, prima o poi,
prendere il largo.)

(Le vie del mare avverso    fluttuano corto grosso
mosso in canale e porto      cutter che vuole andare
mare tremore amore           onde tornate a cuore
scosso da largo a terra        sempre tra dire e fare).

(Poesia cos’è…
piccolo pesce
dei lofobranchi
azzurro delicato,
con pinne come ali
bocca rotonda
e due liste di denti,
pegasus draco
finito tra le zampe
della gatta.)

 

(Che senso strano
– dai, gratta
con gli artigli –
di potere: di presa
e di possesso mio su te
quando lo tieni
in mano.)

 

Tra Trouville e Honfleur, Calvados: 12 agosto

dirupi al  mare
della collina
crolli di siepi erba

cielo striato cenere
grigio-azzurro tenue
celestino

C’è una discesa di meli
dopo la curva del paese
e una panchina,
a mezza costa,
di una vecchia trattoria.
Sedendo e mangiando,
si vedono passare
navi tra i rami
e si distinguono sempre
marinai alle ringhiere.
Un gatto non si dà pace
sotto al tavolo:
ha il muso a palla
e un odore, addosso,
di pesce guasto.
La cameriera toglie
un piatto alla volta
dalle sue pile
e canta sottovoce:
«Vipera gentile…».

(Che stato di piacere
quello in cui, da fermi,
si segue con lo sguardo
qualcuno in movimento
più lontano…)

(Cielo cupo nero
ferro grigio ardesia
cielo del mistero)

(Morbido flessuoso solo
tenero lesto e quatto.
Non c’è niente e nessuno
che mi faccia tenerezza
più di un gatto.)

(Ricordo che una volta
non volevi vino
e ti negavi l’euforia,
perché – a tuo dire –
era una viltà
rinunciare alla lucidità.)

(Resto di sasso
ogni volta – poche,
da contarle sulle dita –,
quando incontro qualcuno
con una missione vera
nella vita.)

 

Saint-Aubin, Calvados: 14 agosto

specchio veloce
nastro di nuvole
filanti

cielo emaciato livido
morso dall’aurora
ripiegato avanti

La casa sulla spiaggia
è un trampolino,
ultimo salto dalla terraferma.
Venendo dalle dune
si vedono le vele
slittare via
tra le colonne.
Il mare invade a sera
l’ultimo gradino
e l’onda fa battere
a rintocchi il tavolato.
Padrone, dicono che sia
un vecchio marinaio
che, all’alba,
da una botola si cala
e prende il largo.

(Si incontra, a volte,
uno di quei passi:
tunnel, corridoio
tra il dentro e il fuori
tra il pieno e il vuoto.
Pozzo, cono di vulcano,
precipizio. Gola, o almeno
pare, di frontiera.)

(La cosa fastidiosa
è che tutto accada
anche quando non ci siamo
o, presi intanto
dentro un’altra storia,
non ce ne accorgiamo.)

(È quell’andare, di
continuo, da una sostanza
all’altra, uscire entrare.
La mia paura del viscido,
della poltiglia.
L’orrore, addirittura,
per la condizione anfibia.)

(Ridico a me talvolta
la favoletta indiana
dell’uomo nel burrone
appeso a un ramo,
che non resiste
a cogliere il lampone
sfiorato dalla mano.)

(Dove corre, ora,
la mia avventura?
A quale passo
si è lasciata…
forse, è cascata, al
lento suo abbandono,
nel cono d’ombra
che l’ha tradita
adesso e per
il resto della vita.)

 

Saint-Aubin, Calvados: 16 agosto

schiene di sabbia
livido rimbalzo
della scia lunare

cielo nero ebano
carta da zucchero
blu notte cobalto

 

Sulle dune
il vento è incerto
dirottato dai cespugli
e l’odore di mare aperto,
che a tratti si interrompe,
sa di melone.
Ma non si può
– si oppone
l’oscura condizione –
fare all’amore
in questo stato:
il riflusso
porta di lontano
rumore indecifrato
e, a terra, non si vede
cosa ci sia:
stringendomi la mano
lei mi porta via.
Qui, sulle dune,
fu sgozzato il marinaio
e la sua ragazza
fu trovata senza testa.
Ancora si risente
l’urlo tremendo,
nelle sere di tempesta.

(Ossessione di sporco,
di viscido, di scuro.
Dei ragni, ho orrore
solo a vederli,
degli insetti.
L’idea di un contatto
mi mozza il fiato,
è come se picchiassi
contro un muro.)

(Dove s’arresta il passo
e il gesto muore,
e avanti corre
solo il tuo pensiero,
qui non avrai di me certezza
né delusione.)

(È che non amo
gli squarci di natura
se non da fuori
del palcoscenico,
da un giusto osservatorio
almeno per il poco
che si possa
presidiato.)

(Perduti lungo il giorno,
di notte ci troviamo.
Io cerco l’esca
e tu mi prendi all’amo.)

(Avviso ai naviganti.
Venti da nord-est
tendenti a rinforzare
fino a burrasca.
Fari d’ingresso
al porto, spenti.)

(Il giorno poi disperde
quello che la notte
ha mescolato:
venuto, andato…
tornato per restare
partito per tornare…
se non ti sei perduto
non ti puoi mai ritrovare.)

 

Bernières, Calvados: 18 agosto

muraglia aragosta
sbrecciata leccata
dal pallido mare

cielo bluastro
di mosto di asfalto
lucido occhio pesto

Il relitto
sul lido delle dune
poggia sul fianco,
inerte e gonfio.
Lo sfascio dei legni
dei ferri e delle funi
non è fuori posto
su questa costa tormentata.
Ha un che di sacro,
fermo nel tempo.
E’ un altare
su cui i gabbiani
si lanciano stridendo.
La lenta processione
non si arresta:
ognuno resta muto
per un po’
fisso nel vuoto.

(Passa la forma,
muore si dissolve
per sempre ci scompare.
È la materia, dicono,
che scorrendo resta:
si trasforma cambia
si deforma,
senza cessare d’essere.)

(Vedo che l’importante
– scusa se mi ripeto
come le campane –
è, in ogni caso,
essere colui che rimane.)

(Dicono che sulla costa
si muoia giovani.
E vengano fin qua
dal resto del paese,
a prender moglie.)

(La cosa consolante, bada,
è il distacco
che uno sente,
quasi incosciente,
da ciò che accade.
Comunque vada.)

(Ci sono cose cui
– è umano? –
non saprei rinunciare
per nulla al mondo.
Tra quelle
questa, di grattarmi
la testa, certe sere,
contando i capelli
caduti sul tavolo
e facendo mucchi di forfora
sul fondo della mano.)

 

Cabourg, Calvados: 20 agosto

lembo labbro orlo
onda che viene
onda che va

cielo marcio palude
petrolio verderame
cielo di bottiglia

Il vecchio bastimento
sta inclinato
contro la banchina,
ma rigido, quasi
prendendo le distanze
dai copertoni
ridotti a fossili.
La ruggine ha vinto
solo le fiancate.
Fattosi mozzo,
il capitano viene
la mattina
a lucidare le ringhiere,
sale sul ponte e
scivola dietro le vetrate
della sua cabina di comando.
Sull’albero di poppa
stazionano file di gabbiani,
come valvole bianche
sui tralicci di tensione.

(Non mi vedo né
giovane né vecchio,
non so se bello
o brutto. Mi avverto
come ingombro
oppure mi scompaio
quasi del tutto,
ogni volta che
mi incontro
sullo specchio.)

(sibilo soffio tonfo
lento tenue spento
pendolo lama pinna
che zigzagando fila)

(Lo sai, mi piace
– sarà il mio modo
tutto di testa –
che tu tenga le scarpe,
almeno una, questa
col tacco a punta
che ti porti dietro:
toccarla, intanto,
che mi calpesta.)

(È un senso di vertigine
quello che mi piglia,
tutte le volte che
sento la nonna chiamare
mia madre sua figlia.)

(Dai, metti la tua
nella mia mano,
eccola presa
nel laccio che la tiene,
giura che mai
per nessun’altra
la lascerai.)

(Burrasca da nord-est
con piogge, temporali
e raffiche di vento.
Tendente a rinforzare
fino a tempesta.)

(Il punto di trazione,
il baricentro. È lì
la vera forza di
gravitazione che tira
giù, lungo la linea
della colonna vertebrale
dietro, tra le cosce:
il buco, sì, del culo.)

(Anche se è solo
una promessa
che hai fatto e rifarai
nella tua vita…
ma non importa, su,
falla lo stesso.
Concediti, dai,
esci fuori da te stesso
se no, non vale
non ti conosco più…
che hai fatto
o cosa mai sei stato
se hai dato poco
e poco hai anche amato)

(Ecco, dev’essere
proprio una sorpresa
per tutti e due.
Immaginando che non
ci sia trascorso,
che ci si incontri
qui per caso.
Contro ogni storia,
sui vincoli e divieti.
Su ciò che, tuttavia,
non è finito.
Anzi, per questo…
L’insolito, il proibito.)

 

Cabourg, Calvados: 23 agosto

diga di case
fine secolo
sul lungomare

cielo cobalto grigio
rigato in superficie
cielo a stracci

Dal Grand Hotel, in sogno,
fino al mio paese,
scende sale così nell’illusione
e proprio lì nel viale della stazione
lei mi aspetta, pallida,
sulla bicicletta.
Ci incamminiamo
sotto i tigli in fiore.
Ha un vestitino corto
color giallo albicocca,
maniche a sbuffo, e gli occhi
accesi tra i capelli.
La ferrovia scompare
e, a un tratto, lì
il mare forma un ampio golfo.
Tutto è immerso, intorno,
nel rosa pallido di sera.
E mare, sì, è la strada.
Mi fermo, perché
non so che fare.
Mi mostra col sorriso,
guidandomi per mano,
a pelo d’acqua
la stretta duna su cui andare.

(La circostanza e il luogo.
D’accordo col filosofo,
che sempre e ovunque siamo
quello che mangiamo.)

(… nonostante l’ambiente
mi faccia preferire discrezione
e mi abbia imposto
quel tanto di buon gusto,
vizi borghesi.)

(Ci fu un periodo
della mia vita
che rimanevo a letto
giorni interi
per non distogliermi
dai sogni.)

(Abbracciami, dai,
stringimi forte
per reggere a ciò
che instabile trascorre
e rompe e schioda
travolge e sfonda
e muri e porte…)

(Eccomi, io,
con tutto il mio
corredo personale,
animale vegetale
e minerale,
e non soltanto questo
tuttavia…
io che grido intanto
e pesto i piedi
e sono io…
il mio
soffio vitale
che vola, viene
e torna via
come uno starnuto
beato incontenuto
spreco di energia)

 

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  Paolo Ruffilli Mail: ruffillipoetry@gmail.com >