Traduzione:


PICCOLA COLAZIONE
(Garzanti, 1987, 3° ed. 1994)
ISBN 88-11-63950-6
www.unilibro.it


Piccola colazione (1974-1986)
per Laura e Giulia

 


«Il vuoto è una stoffa dipinta di parole. Le parole tingono il vuoto e, come una seta, imprimono colori e figure eleganti e, così ricoprendolo, si fissano poco alla volta, fino a quando rimangono, ormai esse sole, indelebili».
Yukio Mishima

«Per il fatto stesso che si parla, ciascuna cosa non è quella che è. Il simbolo è l’assassino della cosa».
Jacques Lacan

 

 

La parola, per me,
veniva da distante.
Un a priori, quasi,
l’avvertivo. Un eccitante.
In un processo in
qualche modo inverso.
Nel darle per riscontro
una realtà che invece,
più toccata e presa, più
sfuggiva inconsistente
ai cinque sensi.
Con l’effetto di essere
lanciata contro un corpo
pronunciato e, nel
suo dirlo, di colpo
riafferrato.

 

Malaria

 

«Qual è più caro, il nome o il corpo?»
Lao-tzû

«Il più alto grado di presenza è l’assenza».
Walter Benjamin

«Troppo comodo
fare quello che piace
e che si vuole».

 

La scatola di latta
è tonda e ruota,
una parte sull’altra.
Si può odorarla, vuota,
e leccarla, quando
la liquerizia è terminata.

 

mela arancia susina
mela arancia susina

 

… da dove saltano
fuori, i sogni,
vesti e contorni
al mostro, alla pazzia:
frullati, puzzle con
i tasselli fuori posto,
come uccelli colorati
o pipistrelli
staccatisi di colpo
dall’albero blu inchiostro.

 

«Dev’essere un accordo
dei grandi,
per dispetto o gelosia».

 

Sulla torre del castello
inespugnabile, sicura
da cui si tiene il resto
sotto mira. Un regno
piccolo ma certo, per
il tempo almeno in cui
la porta è chiusa a chiave.

 

(Scruta, salito
sul bordo della vasca
in bilico, svestito,
indaga sullo specchio
la forma o una ragione
di tanto desiderio.)

 

pesa il passo e posa piano
lancia il sasso con la mano
ferma adesso o vai lontano

 

«Mia madre dice che
posso togliermi tutto».
«La mia, non più dei
pantaloni e della maglia».

 

(Vedersi, essere
visto. Metterlo a nudo.
Tenerlo, se deve essere
tenuto. Ma gli pare
che si debba cercare poi
qualche altra cosa…)

 

Rosso. Di febbre, di
sangue. Dentro al fuoco.
Di unghie e labbra.
Di cappe e di bandiere
Di gente senzadio.

 

Non sommergibile, «Io»,
in rotta per i mari.
«Tutti sottocoperta,
chiudere i boccaporti.
Immersione rapida».
Lo spazio circoscritto
la sacca degli odori
l’ombra del letto.

 

«… cuore, desco, nido
gnomo, soma, tetto».

 

Ancora. Esatta
la secca tiritera
parola per parola.
Specchio, ritratto
analogia, prova
che c’è, sotto, la cosa:
quel che sempre sarà
e sempre è stato,
non dovunque e
come sia. Dettato.

 

… sul Libro dei
Libri Famosi,
nell’enciclopedia.

 

«… ha i colori
del fuoco, della neve
e del prato».

 

«Dai, paga il pegno.
Dire, fare, baciare,
lettera o testamento?».

 

(Non è che smetta
anzi, a rifarlo, gli
sembra anche più bello.
Però, ha il dubbio
che se resta magro
è proprio per quello.)

 

«Più vai veloce e
più, vedrai, ti piace».

 

… che una parola
debba avere un sesso
e una persona (maschile
se finisce in a!). Ma
incomprensibile di più
lo stato di mancanza
di assenza, insomma
la parvenza negata
in un concetto neppure
rifiutato, inconcepibile,
del niente a formularlo e
lo stupore poi di seguito
a pronunciarlo.

 

«La sua, dov’è?
Da cosa è fatta?».

 

(A lui il gusto, solo,
di essere preso. E
il pensiero che è
ingiusto e svantaggioso,
e non tanto per lei
in fondo, se non ce l’ha.)

 

«Lo imparerai, quando
sarai più grande».

 

Visto in segreto e detto
al chiuso, in ombra
bisbigli, incerti
i margini, mai esatti
indizi di segnali
colti, strappati
in fretta e furia
a sillabe, per paura
di essere scoperti
prima di scoprire
centimetri quadrati
di anfratti, di peluria.

una rana nera e rara
sulla rena errò una sera

 

Paura che un vetro venga rotto
che il sale vada sparso
che si rovesci l’acqua mentre bolle
che una zingara entri in casa
che cada il fiasco d’olio
che si rovini la salute.
Paura di restare al buio
di trovare in casa un assassino
di cavarsi un occhio su una punta
di non essere promosso
di cadere in un burrone
di finire dentro a un lago
di annegare, di essere schiacciato.

 

«… l’hai detto,
Già se l’hai pensato,
che non sia stato,
non conta più».

 

«Ci stai allora?
Dai, parliamo male».
«Dobbiamo dire
tutte parolacce».

 

Detti e guardati
sopra il dizionario.
Ammessi, dunque, o
non del tutto ignorati.
E gli altri, sinonimi
più amorfi e grigi,
almeno registrati.

 

«Si mettono così,
l’uno sull’altra».

 

(Sdraiato, a letto,
per l’ennesima prova
generale col cuscino.
Febbrile e ansante
baciandolo, abbracciato.)

 

Contro lo specchio
rispetto a un altro,
piccolo, che scende e
sale, a controllare
qual è l’effetto
di una diversa visuale.

 

«Non devi stare
con certi mascalzoni».

 

Che sia davvero
proprio il tranello,
quello per tentarti
per farti cadere
e, preso nella rete,
condannato in eterno
tra urli e grida
nel lago, nella fossa
in mezzo al fuoco.

 

«Ciò che è confessato
è tolto. E resti libero
una volta assolto».

 

(Lo tormenta, a un
tratto, l’idea sgomenta
di non rispondere affatto
al modello di purezza
cui l’hanno abituato.)

 

… che esca fuori
una bestemmia
senza volerlo, e
che si formi in testa
per un innesco
incontrollato.

 

Ma, sì, chi è stato
ai sette primi venerdì
del mese, preghiere
e litanie per ogni sera,
qualunque cosa ha fatto
e che continua a fare
di sicuro è salvo.

 

«Intanto, dappertutto
Dio ti vede».

 

(Punta là, senza
saperlo. È attratto
per istinto, risucchiata
la sua mano, intanto,
a quel convesso
senza appiglio.)

 

«Lo dico a tua madre
che mi tocchi».

 

… che accada e
non importa come,
che finalmente
sia tolta ogni riserva
e, costi quel che costi,
si abbia il seguito.
Nonostante l’idea
magari di disgusto,
anche nel sangue
nel puzzo e nel sudore.

 

«Piace anche a lei,
che credi, se lo aspetta».

 

Da consumarsi al buio
al chiuso della stanza
in fretta, senza che si veda o
che si senta, di nascosto
di straforo, a danno
di qualcuno, come offesa
nel rischio e con vergogna
violando, più che
si possa, la consegna.

 

… ed è, risulta
inconsistente,
quanto più detto
ordinato e richiesto,
contro lo stare
fermo e sordo, questo
sì eccome imperioso e urgente,
del suo nome.

 

Di nuovo ripetuto
tra sé o a voce alta
riscritto in lunghe
file sui quaderni,
in piccolo e più grande
corsivo o stampatello
in alfabeto greco
con la grafia più antica
disegnato, perfino
cesellato. Sempre quello.

 

«A una cui vuoi bene
non lo fai».

 

Che sia dannata, sì,
e impura e lurida
perduta… ma destinata
a spegnere una sete
appetitosa e, proprio
per questa cosa,
dolorosamente desiderata.

 

(Il sogno suo è di
perdersi, di cadere tra
le mani di una donna
senza scrupoli.)

 

«Si fanno fare
quello che ti pare».

 

Da compitare, legato
a un altro, spingendo
sui contorni, a voce quasi
spenta, smozzicata
sotto ai denti come
sotto la sottana,
il soffio disperato
di… puttana.

 

 

Fu vera gloria?

 

«La forma della casa è il percorso di un destino. Bunker, fortilizio,
labirinto decoroso: le tipologie, insieme,della guerra e della corte.
Carcerati e carcerieri spiano il mondo.  dalle feritoie, e se
lo rappresentano nel sogno».
Anonimo

«L’unica verità che la gente accetti è quella presentata già
come digerita e manipolata, rimpicciolita e decorata».
Hermann Hesse

«Ma come, via… Non
danno proprio niente».

 

«… anche per oggi
abbiamo terminato.
Buone notte».

 

Sì, la splendida cromia
           del video,
il dolce stare alla ventura
a prendere, sorbire, a degustare
i morbidi dessert.
A cogliersi la vita
   già condita,
così, premasticata e digerita.
Per consegnarsi al gioco
delle pose, al neutro moto
patinato
in cui
più niente esiste veramente,
in una lontananza
  che intrattiene
ma per quel tanto solo
che uno sia sfiorato.
La stessa predisposta fantasia,
fuori di sé, covata
si ipnotizza, si dissolve.
Più non trattiene
 l’acqua
è un fiotto che dilaga
che affoga, che si ingoia.

 

«Alla tua età, io non
l’avevo, il tempo
per la noia».

 

Il salotto
è stile inglese.
Frange e fiocchi
dappertutto. Cocci
sui piani, stampe
di fiori e di castelli.

 

(Dì sé, predilige
le mani.
Gli piace guardarle,
fingendosi di fronte.
Abbandonate e esili
quasi femminili.)

 

«Con tutti i tuoi progetti strani…
Ma tirali, alla fine, i fili,
di quello che vuoi fare».

 

Appena oltre la riva
a pelo d’acqua
emerge e non emerge
pare e non pare.
Lasciandoci nel dubbio
se esista per davvero
o sia un inganno
un alibi, un pretesto
il resto di una
storia mai avviata
la noce putrefatta
di un aborto.

 

«Qualunque cosa dica,
ho sempre torto…».

 

(Sarà per l’indole
scettica e insofferente,
per la pigrizia e per la levità
per un’astuzia riduttiva
magari per capriccio,
del resto aspetti nobili, segni
d’apertura contemplativa,
ma si sottrae se può
felice volentieri
all’uso di parole,
dietro l’alone e il fumo
che lasciano i pensieri.)

 

«… è stato ucciso
in strada, sotto casa,
da due giovani
scappati su un motore».

 

«Ma guarda lì, che
roba. Che vigliacchi».
«Ogni giorno così.
Passami i piatti».

 

«Pronto. Chi è?
Non c’è. Non è tornato».

 

(Fa un certo che…
ma quando sta mangiando,
se non ci sono morti
catastrofi e disastri,
ebbene sì lo ammette
a lui dispiace.)

 

«Quei soldi, allora
Hai chiesto? Te li danno».

Il tavolo occupa
il tinello:
c’è posto appena
per le sedie.
E c’è un carrello
con il televisore.

 

«Se te la prendi, vedi
la colpa è solo tua».

 

(Si accorge con piacere
che è ancora e che sarà
quello che era, di nuovo
sempre uguale: lui bambino
che pesta i piedi
e grida: «No, non vale!».)

 

«Magari, tu ci credi.
Ma, poi… uno si pente».

 

I colpi secchi,
il suono che si sente
della sveglia
a scandire il rito
del pulito, nel chiuso
ordinato dalle porte
nel buio, dentro,
nel privato.

 

«Ma si figuri. Pronto!
Anzi… No, l’ho avuto.
Non è un disturbo affatto».

 

Il gusto dello scoppio,
il cedimento e l’abbandono
dopo aver tenuto,
la fuga quasi da sé.
La tecnica sottile
l’arte, addirittura,
dello starnuto…

 

(A lui, i bambini
un po’ dispiacciono.
Li pensa sempre
sporchi e puzzolenti,
piccoli mostri
che toccano e rovinano.)

 

«È dura, senti. Ma non
lo vuoi capire?».

 

… con l’eco che,
a raccolta, li chiama
sulla scena.
Figure nell’opaco,
fantasmi sgonfi
con plaid, pantofole
e borse d’acqua calda.

 

«Delinquenti. Da
rinchiudere per sempre
o da ammazzare».

 

(Ne ha uccisi tanti
col pensiero.
Ha gridato: «Porco,
ti sta bene».
È l’assassino, se
ne vanta, l’aguzzino
dei suoi nemici.
Senza che si perda
un dito della stima
che riserva tenace
sulla sua vita.)

 

«… ma senza esagerare.
Per non esserne scottato».

 

La camera da letto
è in stile chippendale,
con il comò
e le poltroncine.
Ha una toilette
e un grande armadio.

 

«Che cosa hai in mente?
Dillo, per favore».

 

Di lieti boschi, qui,
solo un contorno, di siepi
il segno, alle pareti.
Nel circoscritto spazio
          presi
dentro, nel buio anfratto.
Arresa
           gonfiata enormità
che avvolge e impasta
turgida polpa,
        crema
frolla che spande caldo afrore,
umore giù dal groppo
che gorgoglia. Il pieno
che si svuota. Ampolla
          plafoniera
che pende e che consiste
che cede e in sé ritira.
Vasca di panna soffice
molle polipo
       cascata.

 

(Sarà che lui da piccolo
sognava culi, e ventri
e seni dilatati,
ed era bravo a disegnarli
e lo cercavano per questo.
Per lui valevano da soli,
senza il resto di un corpo
o di una testa.)

 

… i lati, le caselle,
nel regno, nell’ordito
di gabbia, di scacchiera.
Ferve l’incanto
sul filo più sospeso,
sulla cresta del nido
della corte. Per la cura
di serve e di puttane.

 

«Così, stai ferma.
È un attimo soltanto».
«Mi lasci, su. Che fa?
Guardi che grido».
«Dovresti ringraziarmi
per quello che ti insegno».
«Oddio. Ma che succede,
se sente la signora…».

 

IL bagno è stretto,
con uno specchio
ad armadietto
e il lavandino sul bidè.
E, tra la vasca e
la finestra, la lavatrice
e una scarpiera.

 

«Non ci pensare. Datti
più da fare. Così ti resta
sempre qualcosa
a cui ti puoi attaccare».

 

(Però gli pare che
alle donne piacciono
se sono mascalzoni,
e solo con quelli
perdono la testa.
Che gli altri, pronti,
neppure a un cenno,
alle intenzioni
contino infine
come soluzioni.)

 

«Ma apriti con noi.
Cosa ti manca? Lascia
che ti consiglino
i tuoi cari».

 

… sì, di quei lampi
lividi, che si propagano
come capillari
sulla pelle bianca.

 

La credenza e i pensili
di finto legno
alla parete, nella strettoia
della cucina. Con il lavello
sotto la finestra
e il frigidaire che occupa
un terzo della porta.

 

«Il tempo passa in fretta.
E tutto… Pronto! Invecchia…».

 

La fetta del melone
quasi si scioglie:
è piena, fatta
al punto che si deve.
Lascia che slitti
sulla lingua,
pensandoti frattanto
in tutta crudeltà
al posto di comando.

 

(Ama un’idea di sé,
vive di quella
e delle sue invenzioni.
Dei suoi fantasmi,
della sua gloria.)

 

«Per te, lo so,
non conta, non è stato.
Con quel che abbiamo
lavorato, io e tuo padre».

 

(Riservato e un po’ introverso
inappuntabile, a vederlo,
ossequiente di ogni autorità.
Lui che risponde serio:
«Ma si figuri, per carità».
Elegante, sì, e gentile
molto discreto sempre
accolto ovunque con favore.
Sia pure ma… lontano
fuori scena, lui si sente,
neppure poi in agguato
e più in difesa, quasi
del tutto assente.)

 

 

Per amore o per forza

«Il primo amore, sì, può essere l’ultimo, Signora Napier».
«Ti sbagli. No, mia cara, non è così».
Ivy Compton-Burnett

«Solo il tiranno parla d’amore».
Norman O. Brown

«Sei arrivato, finalmente.
Come mai? Dove sei stato?».

 

(E non gli serve
tenersi più occupato.
Non riempie il vuoto
un gesto, e appena
lo può fare o solo
corrugarne di ombre
il falsopiano, il nome
dell’assenza: l’oggetto,
nel frattempo, delirato.)

 

«È inutile, perché
non vuoi capire».
«Quello di una madre
è il solo a non finire».

 

«Si sente, a un tratto, uno…
così, fuori di sé».

 

Fermo, sotto cristallo, nudo
cova l’attesa
             secco
crudo gelo di distacco
guscio che cela il tenero
lastra blocco che,
       intanto,
crepa.     Ecco,
non più paralizzante.
Goccia dopo goccia, perde
si fa rivolo
       torrente.
E, intorno, a distesa
gonfia, scoppia, si confonde
e dai tagli
     versa
della ferita sanguinante.
In movimento, in corsa
colmo fino all’orlo
trabocca, incontenuto,
                 spande.

 

“Dirà che non è vero,
che le era sembrato.
Che ha sbagliato”.

 

«Non stai più a casa.
Come sei cambiato…».

 

“Perché me, poi?
Perché gli piaccio, spero”.

 

e non ci sono
scuse, non c’è
rimedio vero.

 

La stanza è stretta
e lunga,
con le persiane
sempre chiuse.

 

«Ti piaccio, allora io?
Dimmelo ancora».

 

E pur incerto batte,
fedele, le sue rotte.
Incespicando al buio
in mezzo a fumi e nebbie,
senza sapere niente
dell’oggi e del domani.
È fatto di richiami,
di gridi e di segnali
che ci si lancia andando
come i salvagente.

 

«E non ti stancherai
di me? Neppure quando…».

 

(Non si abbandona, no.
Sempre, è presente,
e chiama entrambi
alla pronuncia continua
di conferme.)

 

La lampada a muro
è fioca: le ombre
si allontanano
le une dalle altre.

 

«Abbracciami. Dai,
stringimi forte».

 

A ciò che instabile
trascorre, precipita di là
oltre il versante
e schioda, rompe i margini
confonde e impasta
in uno stesso magma
               indifferente,
a ciò che a poco
o a niente basta per sé
per un esatto stato
               e ruolo di persona,
che non ha spazio e tempo
che non ha storia
se non di un passo
               di breve volo,
si oppone l’incrollabile
il solo impegno
              la certezza
di cosa non saputa
              non veduta.

 

… sentire di appartenere
a qualcun altro, e che
qualcuno ti appartiene
per sempre, in esclusiva.

 

Un desiderio di durata
di tenuta, a tutti i
costi, di resistenza
premeditata al vuoto.

 

“Ma perché, intanto,
interessarsi a me…
Cos’ho? Che valgo?
Che non trovasse di meglio
in qualcun altro”.

 

Libri a terra, sparsi
e pile di quaderni
dietro la tenda
contro il muro.

 

«Staremo sempre insieme.
E ci diremo tutto».

 

Lo stato di servaggio:
una specie di cintura
cui si tende, tanto o poco,
cui si aspira per paura.
Che si impone, proprio
mentre si subisce.

 

“Testa, se fa sul serio.
Se mi vorrà per sempre.
Croce, se è solo un gioco
che finirà”.

 

… un dubbio, a
tradimento,
ti colpisce.

 

“Ma sì, vedrai,
mi lascerà.
Ė questione di tempo:
quando si sarà tolto,
finalmente, la voglia”.

 

La libreria
ingombra lo stanzino
e, contro la finestra,
forma una nicchia
per metà nascosta.

 

(Diventano, per lui,
mitologia. Gli inneschi
di un destino che,
di continuo pensa
con timore, poteva
non aver risposta.)

 

«Mi prendi in giro?
E, allora, quanto?».
«Tanto, sì. Di più.
Infinitamente. Da morire».

 

Nell’uso suo corrente,
si misura a ore.
Eppure, va a finire
che se ne dà un valore
indefinito, di tesoro,
di spazio d’anni luce…

 

… ancora
mi nascondo
dietro il muro
di luce, frutto
del sogno.

 

«Tu sei diverso,
unico al mondo».

 

Chiamato in causa
tenuto, inafferrabile,
goduto, declamato
nel suo essere tutto.

 

«Così non vale.
Non ti rispondo».
«Ma se dovessi
scegliere davvero…».

 

Il vecchio parquet
del pavimento
odora di lucido
e crepita in continuazione,
ad ogni movimento.

 

«Se sentono di là…
Aspetta. Dai, ho paura».

 

Insieme. Tenendosi piano
sul corpo svelato
al tatto, al gusto
              violato
dall’occhio, da mano.
Un senso perduto
              ripreso,
in lenta caduta
di peso, si lascia
              di volta
in volta, si piega
si rende al suo volo.
Nel fondo, nel morso
               distesi
slittati, confusi
arresi alla stretta cintura.

 

Bellezza, sì lo so,
tu sola esisti.

 

(Eppure, la cancella.
Vorrebbe che non fosse
la cosa che di più
lo attira in lei.)

 

«Ma cosa pensi, tu,
di me, poi, veramente?».

 

(Rimane sconcertato
di fronte alla pretesa
di avere in sé presenti
i suoi pensieri.
Teme di non essere
del tutto ricambiato,
che lei trascuri
la più assoluta dedizione.)

 

Lo stuoino di corda
è tra la sedia
e i piedi del tavolino,
fin sotto ai tubi
del radiatore.

 

«Cos’è che hai?
Non vuoi? Non ti va più?».

 

Avviene di sovente
per norma o per errore
che ogni essere vivente
in stato di accadere
sia condizionato
nelle sue funzioni
dalle sensazioni
di dolore o di piacere.

 

«Niente, ti dico,
Non è che mi rifiuto».
«Ma non rispondi…
Vedi, resti muto».

“È incredibile, però
mi sento sollevato
appena uscito,
appena l’ho lasciata”.

 

(Lo incalza l’ansia
di stare alla presenza
del corpo amato
ma, dopo averlo visto
e più e più toccato, è
con dispetto costretto
a riconoscersi saziato
e già con il pensiero
è scivolato
all’atto di lasciarlo
per essere di nuovo
sul punto di trovarlo.)

 

“Strano, eppure
è vero il sollievo
che provo, per un po’,
appena se ne è andato”.

 

… così, aperta
gonfia, illividita,
anche se non più
del tutto sanguinante,
la ferita.

 

La parete trasuda
umidità:
è tutta ruvida
di croste
che fanno sollevare
i quadri.

 

«Dai, metti la tua
nella mia mano».
«Eccola, presa nel
laccio che la tiene».
«Giura che mai, per
nessun’altra, la lascerai».

 

 

L’assedio di Costantinopoli

 

«Pensate che vi nasconda qualcosa, o miei discepoli… Ma non
c’è nulla ch’io non dica, in verità».
Confucio

«Ho avuto cattivi maestri. È stata una buona scuola».
Arnfrid Astel

… l’orrida caverna,
piena di buio
di punture agli occhi,
della nostra incertezza
sui bersagli.

 

Un orizzonte aperto
che non tocchi,
di cui ti sfugge
il giro e la distanza.

 

«Oltre le terre note
pensavano che fosse
la sede del popolo
beato…».

 

Ci hanno già provato,
col vino con le risse
con l’amore.
Ma si consumano di inedia:
non lasciano
il confine della stanza
non passano le porte,
per accidia per timore
o noncuranza.

 

(… che gli riesca
di rendere a parole
lo stato di attesa
e di mancanza,
che abbia un rilievo
sia pure nell’assenza
ciò di cui si teme, ogni
momento, l’inconsistenza.)

 

In tanti, muoversi
ma ognuno per suo conto
fino a notte
sulle carte sulle rotte…
affrettare il passo
              verso l’alto
al traguardo, a chi arriva
prima sulla vetta.
Ma dalla cima
              in basso
offusca la veduta
una caligine sottile.

In nero logoro,
le mani un po’ lunari
aggrappate al suo bastone,
il vecchio il santo
il maestro di pensiero
attorniato dalla corte
di muti maggiordomi
di prelati che
gli fanno il controcanto.

 

(Qua, si rende
conto, non è venuto
tanto per l’università.
Ė un’altra idea, in fondo,
di spazio e tempo,
un ribaltamento
del passato
La curiosità. Qualcosa
che magari, di lì a poco,
se anche lo lascia
per ora stupefatto,
poi si perderà.)

 

L’ingresso è un lungo
scatolone.
La poca luce
gli viene dal cortile.
Ė tappezzato, il muro,
di disegni: teste
del Che e stelle
a cinque punte
e, ripetuto, con vernici
rosse e nere:
NEL CUORE DEL POTERE.

 

«… di tutti conosciamo
lo sviluppo.
Solo quello di Nausicaa
resta incerto.
Di lei sappiamo, solo,
che era vergine.
Ma durerà? L’amore o
il caso o la ragion di stato…».

 

Mentre pronuncia
a piena voce
le ben studiate formule
la sua lezione
e alza l’indice
e modula ridendo
dalla parte, presume,
della ragione.

 

(Paura di ciò che attende
ma non per sé da solo,
per lei… che poi
l’incontro con la realtà
non muti e adulteri
la loro unione o che,
magari, le consegni di sé
un’immagine inferiore.
E, ancora, gelosia
che lei si esponga.
Tacendo, ambiguamente,
l’intenzione
di scegliere per lei.)

 

La scala è ampia e buia.
In giallo ocra denso
a macchie d’umido,
istoriato variamente:
IL POPOLO IN ASCESA,
BASTA CON LA BIBLIOGRAFIA,
OPERAI E STUDENTI,
MORTE AGLI AVARI
MANDARINI DELLA BORGHESIA.

 

L’idea, ripresa, di
dare ordine la mondo
di insistere, alla
ricerca del segreto.
Che sia soltanto
questione di pazienza.
Ma ci risparmi
una fatica…
La pretesa
di chiedere conto
ai libri, alle scritture.

 

Muri spessi di volumi
e polvere e assestarsi
di legni,
              intorno.
Voci e passi, in basso
al tavolo
              sospesi,
fruscio di pagine
e gomiti e bottoni.
Rumore in lontananza
              trattenuto
respinto fuori
da barriere di carta
filtro di velluto.
Flussi, correnti di energia
da un polo all’altro
rimbalzando dalle pagine
ai corpi chini sui ripiani.
A piombo
               in bilico
a pescare, su plichi
elenchi rendiconti
di un mondo concentrato
chiuso in scatola
spremuto, distillato.
Tutto bloccato
o in lieve movimento
di alghe e pesci
              nell’acquario,
fino al tonfo del libro
al crollo della sedia
allo starnuto.

 

… nonostante lo sforzo
che c’è stato, ad
ogni passo, violando
le ragioni, spazzando via
le prese più sicure,
non resti niente.
È tutto cancellato.

 

Amor che a nullo
amato amar perdona…
Ma non dà conto
non appartiene, non
funziona, se non
come rumore
e suono puro
che non rileva altro
e dà piacere
nel pronunciarlo a sé
nel triturarlo
tra le labbra.
E… la memoria
cede, viene meno.

 

(Gli capita, gli è già
accaduto, di credersi
o solo di sperarsi
uno scrittore.
È cauto e irrigidito
in questa esplorazione:
si ausculta e, mentre
aspetta, teme. Sì,
ha paura del responso.)

 

«… che sia un errore,
e sbagli, dunque, a ritenerla
l’unica espressione».

 

È un attestarsi
qui, del resto
come altrove,
sopra i dettagli.

 

La sala è stretta
e sobbalza ogni volta
allo scatto della porta.
È un corridoio
diviso in stanze,
con le finestre
al pavimento.

 

«… da questi
ras di regni minimi
coi loro harem
scribi e pretoriani».

 

… stretta oramai
da tutti i lati,
ridotta a poche miglia.
Venne investita
per terra per mare
da orde innumerabili
da una flottiglia…

 

Non era il corridoio,
il collo di bottiglia
delle Termopili.

 

Mani che serrano
una gola livida,
invano palpitante.
Sugli occhi, da una parte,
torri e cupole dorate
oltre le mura.
Dall’altra…

 

Niente ricordi,
no, senza parole
di fronte alla paura.

 

La caduta. L’assedio
di Costantinopoli.

 

L’idea, a tratti,
che conti quello che
è già stato, il resto
dei tempi, l’ordine
più apparente che…
il risultato:
arrendersi alle cose
come sono, al
loro inerte moto, per
reggerne e coprirne,
almeno, il vuoto.

 

«Sopra la luna
è il regno del divino
e, sotto, quello
umano e demoniaco.
Dall’etere alla terra
il corpo si fa
sempre più pesante».

 

(Non crede, in fondo,
al taglio netto.
La negazione gli va bene
finché sa scegliere.
Ma i limiti richiesti,
le bende agli occhi
e alla memoria…
Non può coinvolgerlo
l’azione che pretende
di illuminare il mondo
e finge e tace per una
verità presunta,
per la fede.)

 

Il grande corridoio
non prende luce.
Ha neon e panche
lungo le pareti
e bassi termosifoni.
Scritte di vernice
tutt’intorno,
su cui campeggia:
NON GREGARI MA
SOGGETTI DELLA STORIA.

 

«Occupazioni principali,
magari non ci avete
mai pensato, di tutti
gli ordini sacerdotali
erano, sì, ogni giorno
di preparare il pranzo
per gli dei
e poi mangiarlo».

 

Ridurre assottigliarlo,
in progressivo affinamento
e poi lasciarlo andare
a fondo, bancarotta
e così sia. Ma…
non è, poi, la via, no,
neppure questa.

 

(Teme che, restando
in posizione di difesa
di fronte a molte cose,
non si riesca a dirle
per ciò che sono
e che si possa farlo
in modo certo
solo lasciando, tra sé
e loro, il campo aperto.)

 

 

Prodotti notevoli

«… sì, le sublimi massime promuovono alla vita»
il Ministro della Pubblica Istruzione

«Non siamo noi che riusciamo a cambiare le cose conforme
al nostro desiderio, poco a poco è il nostro desiderio che muta».
Marcel Proust

 

«Sta’ attenta. Cammina,
non perdere tempo.
Hai fatto i compiti?
Finito di studiare?».
«E poi…»
«Non andare in giro.
Non fare l’oca».
«Uffa».
«Non comportarti male».

 

«Sì, sembra un fantasma
a quest’ora».
«Una carcassa di nave».

 

Luce in specchio e maniglia.       Ma
nell’opaco fondo dell’armadio,
come stipato in sé ravvolto
e inanimato, accatastarsi in pieghe
di candido bucato,
a liste a rullo a serpentina
contro il secco compensato
maleodorante a scaglie scricchiolante,
come bardato a festa
e preservato intatto nel tragitto
fermo rinchiuso in cellofàne
contratto,
               spoglia substrato palafitta
di formule e figure vane
di replicati modi di gincane,
vuoto involucro
rugoso palloncino sgonfiato
intonaco crollato                  manto
senza scorie disossato,
di sé pago e contento, che…
               ma libra al vento
gonfia sbuffa si attorciglia
mostro grifo girandola aquilone
panno chiglia di fantasma,
latte pallido perlato
               bianco luce,
in cera      molle corpo
preso e lasciato.

 

«… l’impegno, nell’affidarle
la nuova gente, il monito,
l’esortazione del poeta:
tempri dei baldi giovani
il confidente ingegno».

 

La tenda è secca
per la polvere,
dai vetri sporchi
la luce passa sui muri
pieni di crepe.

 

«Mi chiedo a volte
cosa stiamo a fare».
«Sembra che ti scappi
quello che credevi di trovare».

 

(… sed lex. La disciplina
è dunque indispensabile.
Se i soldati non obbedissero
sul campo al generale,
la sconfitta nel caos
sarebbe inevitabile.)

 

Le lampade pendono giallastre
dal soffitto
e i banchi sono zoppi
con i piani tutti segnati.

 

«… il senso è cogliere
staccare, strappare.
Si dice di fiori e di frutti,
di api che succhiano il polline.
Di chi si gode la vita
ma anche ne è consumato.
Trascrivete, in margine, le voci:
carpo carpsi carptum carpere».

 

«Ti viene voglia d’essere
in altri posti, intanto».
«… che tutto corra
e passi, per te, d’un tratto».

 

Le ragnatele coprono
le griglie polverose
dei grandi termosifoni
arrugginiti.

 

«Parlare di ciò
che sempre è stato detto».
«Di libri che, poi,
nessuno ha letto».

 

«… no, che non basta.
Non siate pigre. Tema:
Facendo ogni opportuno
riferimento…».

 

… sono tutti d’accordo
che il mondo è cambiato
e che lo studio è diventato
il problema numero uno
per la gioventù.

 

Oggi, con le macchine
e col progresso della scienza,
l’ignorante è spaesato
nella civiltà moderna…

 

… di noi
quando saremo grandi,
cosa faremo mai
che cosa non faremo.
Il tempo stringe sempre più.

 

… per ritrovarci un giorno
a nostro agio, spero,
nel mondo in cui vivremo.

 

«L’ho visto ieri
uscendo, sai, da scuola».
«Lo saluti, lo fermi,
ci scambi una parola».

 

A terra, involti scuri
di lana e di capelli
levitano ad ogni passo
lungo le pareti.

 

«Non mi riesce con loro
di fare mai un discorso ».
«Ognuno si tiene per sé
i suoi pensieri».

 

La lavagna è ripiegata
contro il muro.
Il nero della lastra
non è più netto
e una polvere di gesso
sta sui bordi.

 

Polvere pulvis polvere,
nembo di polvere.
Polvere su cui tracciare
il segno labile.
In solem et pulverem
producere doctrinam.
Polvere ed ombra.
Pungere levigare scuotere
dal cono di luce in fermento
al mescolarsi intorno
nell’apertura della porta.
Molestia e peso lasciati
all’alito dell’aria riscaldata.
In polvere il granello
che fu il principio.
In polvere il granello
che inceppa il meccanismo.

 

«Appare strano, capisco
come sia, e un senso di noia
vi prende alla lettura. Ma
è solo questione di tempo,
sì, parola mia…».

 

Nell’ombra dell’aula
dietro alle altre, nel fondo,
si pettina e ride.

 

«Pensavo che solo a me
accadessero certe cose».
«Finché qualcun’altra
non te lo dice».

 

«Che c’entra! Il punto,
affronta la questione
e dai dati che hai in mente
componi il quadro esatto
della situazione»

 

(… fattore decisivo
per la formazione, sempre,
del carattere morale.
Il giovane discente
rifletta e non sottragga sé,
nel processo educativo,
al contributo
che è essenziale.)

 

«Sta’ a casa. È meglio.
Dov’è che vuoi andare?».
«Dove mi pare».
«Guarda di non pentirti,
qui ti vogliamo bene».
«Questo, che c’entra».
«Fuori il mondo è cattivo
tu che ne sai…».
«Voglio vederlo io».
«Qui non ti manca niente».

 

«Non sento cose simili
a quelle degli autori».
«Forse è gente strana,
lontana troppi secoli da noi».

 

Scrivono in fretta qualcosa
sul quaderno e insieme
lo rileggono ridendo.

 

«… ogni intenzione, la volontà,
nell’imminenza di un accadere.
Anche destinazione, necessità.
Capite? At tamen fiet
quod futurum est».

 

Le appoggia il mento
sulla spalla e ride ancora.
L’ombra è più fitta
durante la lezione.

 

Dal panno dall’ombra
impercettibile procede,
appiglio e spettro
indizio parvenza lieve,
la larva lattiscente
di quello che sarà.
All’ombra lasciarsi
come in bilico
da cui scorgere luce.
Scuotersi riprendere
nel lento stato di contatto.
Dolce liquore elettrico
linfa disciolta.
Svolge e ravvolge sé
spinge e rincalza
lo scuro desiderio,
il senso di un evento
che non si compie mai.

 

«… la regola? Sì, vediamola
intanto applicata e avrete allora
fissata sul serio la lezione».

 

«So da come mi guarda
cosa vuole da me».
«Mi basterebbe sentirgli dire,
una volta, che è incerto».

 

Si intreccia i capelli
e, abbassando lo sguardo,
lascia cadere a intervalli
la penna sul banco.

 

Padre potente
arbitrio comando
signore che prende
che regge le fila
che muove e sostiene
dominio e licenza.
Padre che è assente
sole lontano
ignoto mestiere
enigma che incalza
diverso e straniero
limite termine fine.
Padre splendente
pensato e sognato
tenuto soltanto per mano
guerriero tornato
per poco disposto a restare
giocare parlare una volta
babbo papà.

 

«È qui, studiando e
imparando le regole del gioco,
che avrete modo di sapere
e di affermarvi nella vita».

 

«Non sanno che dire,
un giro di poche parole».
«Ripetono ancora le frasi
che ho sempre sentito».

 

«Non ci pensare. Stai solo
male: sei stanca, sei esaurita».
«Ma se sto bene… Son
cose mie. Falla finita».
«Tutte manie. Vedrai che
basta una cura, ti passerà».

 

La madre sorride
tra i giri di parole
nel sole che di sera
ristagna sulla polvere
dei banchi.

 

«È tutta per la scuola
la bambina».
«Vale per una donna,
darle un’infarinatura».
«Prima di tutto, metto
la disciplina».

 

Nell’aula fonda,
dal gruppo incerto delle figure,
si guarda in giro
con aria di complicità.

 

«Sono ragazzi e vogliono
certezze per il futuro».
«Vedrà anche lei
se avrà dei figli mai».
«… non lo direi, ma
sta benissimo
con lei, glielo assicuro».

 

«Ė ancora una bambina
Con quello che succede
oggi nel mondo».
«Le ho detto sempre
di non esporsi».
«Che non si metta in mezzo
a certe cose».

 

Poche parole in fretta
e un riso secco,
mentre la luce annega
inghiottita dal soffitto.

 

«È una questione,
in fondo, di buonsenso.
Dia retta a me:
quello che conta,
permetta che glielo dica
io, è l’esperienza».

 

Madre matrice
guscio da cui si spoglia
il viscere
vulva oscura caverna
madreperlacea conchiglia
fodero guaina.
Madre matrigna
nodo filo di ferro
corda ritorta
capo di gomena
cavo canna filo di rame.
Madre madrina
palo a cui tiene la serie
base puntello
bacchetta che guida
remo spranga timone.
Annaspare nel filo
tendere frangere
districare l’involto.

 

«A che vale?
È un esercizio pratico
del tutto naturale.
Anche il solfeggio
è noioso ed uguale,
ma se si vuole
imparare a suonare…»

 

S’apre la porta
ed entra un bidello
con la circolare.

 

(… non solo garanzia
di pace per l’Europa,
suggello di eterna connessione
di vite e di destini,
in una storia sola
e in una civiltà.
Il sogno di Mazzini…)

 

«Che schifo, senza fame.
Comunque, non mi piace».
«Mangia, che ti fa bene.
Che avete fatto a scuola?».
«Quando… Stamattina?
Niente, uffa. Una scemenza».
«Come niente. E stai composta.
Sbuffa, sì, la poverina».
«Al solito, le stesse cose.
Non mi va, non lo voglio».
«Manda giù, stai diritta
Lo fai apposta? Più vicina».

 

«Che condizioni, allora?
Come, quando, perché…
Non puoi ignorare il modo
e non sapere le ragioni».

 

La classe è buia:
dai globi opachi
le luci non scendono
sospese su a mezz’aria.

 

«… magari
anche più bello.
Cercate, per capire,
l’esatta formula di dire».

 

Apre il quaderno.
Guardando la compagna,
legge senza respirare.

 

«La vita è una palla:
la immergi e torna a galla».

 

«La vita è vagabonda
e va senza intenzione».

 

«La vita è acqua sporca.
È tutto e non è niente».

 

Vita vivente    stato
patente latente
azione funzione
diaframma del nulla
dal nulla
muscolo diastole.
Vita vagante     stato
incitante inibente
azione ragione
nesso catena
muscolo sistole.
Vita fluente     stato
stagnante corrente
azione scissione
parte mischia miscuglio
combinazione.

 

«Sa, il programma…
C’è un piano superiore.
Niente nasce da niente».

 

«Arrivederci, allora».
«Buongiorno, professore».

 

La fila degli attaccapanni
rotti, nel lungo
corridoio. Le carte
e i mozziconi, a terra.

 

«Te ne sarai accorta,
anche tu, che è strano».
«Piano piano, ti senti
in parte, poi, così diversa».

 

Piena che porta
che piega che smonta
da sponda a sponda
che cala che salta.
Onda che prende
che piomba e dilaga
che versa che fonde
che spande
che dissipa avvolge
congiunge.
Galleggiando fluttuando.

 

«È un mare grande
e ci si naviga ogni giorno».
«Finché non trovi
un po’ di terraferma».

 

«Dai, sbrighiamoci
che è tardi».
«È tardi, un corno!
Con quello che ci aspetta…».
«Chissà che non sia assente
qualcuno stamattina».

 

 

All’infuori del corpo

«C’è, nell’uomo, una tendenza naturale ad allontanarsi
dal corpo e a rimuovere da sé le sue funzioni».
Jonathan Swift

«Ha il nostro corpo questo difetto, che più gli si prodigano cure
e conforti, e più scopre necessità e bisogni».
Teresa di Lisieux

«Sarebbe, quindi,
tutto un grande errore».
«Non so se un caso o
un piano superiore. Ma,
certo, nel difetto e
nel dolore».

 

L’ignoto arretra
un passo e avanza
all’infinito.

 

«O, almeno, l’impressione
di un oblio… Che so,
di un annegare».
«Che cada a fondo
smarriti gli orizzonti,
e corra via».

 

Pare che al mondo
non ci sia una storia,
che manchino contorni
definiti, che tutto
avvenga, da un certo
punto almeno, per inerzia
o per pressione di un vuoto
che acquista moto e spazio
nel procedere dei giorni
fino a farsi pieno.

 

«Attento, si capisce, a
dove vai. Segui la pista
senza cedere agli abbagli.
E non vale se sbagli,
meno che mai nel noto.
Perché il mistero
vero è proprio in
ciò che è a vista».

 

… se non si perde,
neppure si conquista.

 

È vuoto è nulla
il tuffo non finisce
ombra da ombra
         tiene
il corpo non risale
         voce dall’acqua
spinge
di sé ciascuno
          stringe
la parte che ne affiora
e finge il resto immerso
ne cuce i lembi
ai bordi della falla
ne immagina la forma
che viene e non ritorna
dentro sangue e fango
in essere disciolto
e su dal fondo
solo capovolto
nel più profondo
          inter
urinas et feces
sotto una luce stanca
per ferri e garze
fuori a galla
          nascimur.

 

Dentro lo spazio
di teoria,
identità (la mia?)
risultanza
quasi d’anagrafe.

 

Vita: stato di
confusa situazione,
tentata relazione
tra un oggi
invano organizzato
e quel che ieri ha teso
ineludibile tracciato.
Strazio di gesti
e di intenzioni,
compromesso di parole
vissuto e mai accettato.

 

(Non si vede né
giovane, né vecchio,
non sa se bello
o brutto. Si
avverte come ingombro
oppure si scompare
quasi del tutto.)

 

Controlli, indugi,
attese a non finire
prima di spiccare
finalmente il salto.

 

… così, sul declinare
andante, sul filo
di quell’onda…

 

«Fino a scoprire
che poi, di là,
non c’è la sponda».

 

È la cancellazione
progressiva delle
presenze care o note,
il conto che comincia
a non tornare. Il
margine sempre più
sottile, man mano
che si fanno falle
e vuoti tra le file.

 

«Del resto, è
naturale l’insoddisfazione
che ti assale».

 

… per quello che
hai pensato
o nel ricordo
del già stato.

 

(È che non ama
gli squarci di natura
se non da fuori
del palcoscenico,
da un giusto osservatorio
almeno per il poco
che si possa
presidiato.)

 

«Quasi dovessi
renderla migliore».
«Perché, in effetti,
è sempre deludente».

 

Nel senso della fuga
e dell’assenza, del
marcio e dell’oscuro,
del regno perso
appena conquistato,
del porco che si gonfia
ed è sgozzato, del
mucchio di neve
sciolta in niente.

 

(Ossessione di sporco,
di viscido, di scuro.
Dei ragni, ha orrore
solo a vederli,
degli insetti.
L’idea di un contatto
gli mozza il fiato,
è come se picchiasse
contro il muro.)

 

«Capita a tanta gente.
Con l’illusione, sì,
o la speranza
di una soluzione».

 

Si incontra a volte
uno di quei passi:
tunnel, corridoio
tra il dentro e il fuori
tra il pieno e il vuoto.
Pozzo, cono di vulcano,
precipizio. Gola, così
pare almeno, di frontiera.

 

… lo sguardo fisso
nell’ignoto, il tono
abbandonato, lo scatto
incontrollato di un
labbro rosso vivo
sul volto di cera
poggiato sulla mano.

 

Un soffio che respira
su ogni cosa,
una condensa di
fiati e di sostanze
in decomposizione,
un alito di morte
che si posa
in lenta umida lievitazione.

 

«Guardi, sarà
come lei dice.
Comunque, ci si annoia».

 

(… nonostante l’ambiente
gli faccia preferire
discrezione e gli
abbia imposto quel tanto
di buon gusto,
vizi borghesi.)

 

La cosa fastidiosa
è che accada anche
quando non ci siamo
e, presi intanto
dentro un’altra storia,
non ce ne accorgiamo.

 

(Lo sa, gli piace
— sarà il suo modo
tutto di testa —
che lei tenga le scarpe,
almeno una, questa
col tacco a punta
che si porta dietro:
toccarla, intanto,
sentire che lo calpesta.)

 

È un senso strano…
«Dai, gratta
con gli artigli!»
di presa e di potere
sopra di lei
nel suo tenerlo in mano.

 

Lo stato di piacere
in cui, da fermi,
si segue con lo sguardo
qualcuno in movimento
più lontano.

 

Col gusto, sì,
col tatto e con la
vista, con tutta la sua
testa, mani e labbra
e pelle… insomma,
con il corpo ma
all’infuori del suo
corpo.

 

(Uniti, ancora
e sempre, sulla scena
che si avvera.
È dal dottore
con cui tradisce
suo marito.
È la cameriera
con cui se l’intende
quando è uscita
la signora.
Incline, lui, e
pronta, lei, insieme
a recitare la commedia.)

 

È la parte detta
e, dicendola, violata
quella che conta.
È ciò che è consacrato
a farsi per istinto
l’oggetto bestemmiato.

 

… morde, la tigre,
e graffia. La lingua
che scivola via.

 

Ti voglio mia,
fedele a me in
assoluta dipendenza.
Disporre di tutta
la tua vita,
senza misura.
Anche se è contro
la ragione, anche
se sento che è
un inganno, per paura,
e una violenza.
Sia quel che sia.

 

Sarà il disturbo
di qualche interferenza,
effetto dell’amore
che non può prendere
del tutto, ma che
impedisce di lasciare.
Necessità di presidiare
un fianco, con la
conseguenza di
tenere senza essere
disposti per intero
ad aderire. E, poi,
il peso scettico
di fronte all’evidenza
che ti assale, che
comunque e sempre
sia destinato tutto
a finir male.

 

«Si può riuscire
a scriverla, sì, a
trovarla… la verità
presunta delle cose?».

 

Il cavaliere bianco
alto, distaccato
singolare.

 

Accade senza piani
per una somma
incalcolabile
di forze in campo,
la sorpresa, la chance
di un altro corso,
la discesa da spazi
più lontani,
l’intersezione
nello stesso punto.
Ma sempre senza
il tempo o il modo
neppure di
attaccar discorso.

 

(È un posto, questo,
in cui è già stato
e in cui sarà
chissà quante altre volte.
Se non ci fosse lei,
sarebbe un’altra
a fargli eco.
È, qui, la soluzione
magari anche imprevista
cinica e crudele,
nell’ammissione che
la scena possa
mutare le comparse
e che si dicano
con eguale convinzione
le stesse cose
a più persone.)

 

«Sembrava tale che,
non so, per sempre…
decisiva».
«In una, avresti
detto, eterna
connessione».

 

Andando, si ribalta
— è noto — la prospettiva.
E, stando fermi,
sfuggiva in pieno
che è una questione
solo relativa. È
il moto, sì, che
mette in relazione
con le cose e… fa
presenti le distanti
e le vicine subito
vacanti.

 

(È all’improvviso,
dentro al tunnel
nell’aria morta
che pizzica alla gola.
Tutte le volte
che c’è già passato…
Eppure, no, non vale.
Che lo ricordi,
lo anticipi una sola.
Picchia nel muro
e lì si rende conto,
dentro il percorso
cieco e uguale
— specchio di sé
a una sua spoglia —,
di ciò che è stato
di come, in fondo
e contro ogni sua voglia,
lui sia cambiato.)

 

Così, spontaneamente,
pretende ognuno
di ritrovarsi al posto
che non ha. La parte
che gli è data dilegua
di fronte a quella
immaginaria.

 

… il carico soave.
Precipita però, la piuma,
come piombo nell’abisso.

 

All’improvviso, l’idea
di un vuoto, senza moto,
del nulla, dell’assenza
di un segno o di una traccia,
agghiaccia il sangue e
fa tremare mani e voce.
Nel punto estremo e,
ormai, non più lontano:
alla foce del fiume,
a un passo, ad una spanna
dalla frontiera, chi c’è
o cosa… che mi salvi
dal salto, dalla condanna.

 

«Così, dall’alto
scesi a un compromesso».
«Col sogno dell’accordo
in perfezione».

 

Eppure, intanto,
arresi all’evidenza
di andare navigando
alla deriva.

 

 

 

 

 

 

 



  Paolo Ruffilli Mail: ruffillipoetry@gmail.com >