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Paolo Ruffilli è nato a Rieti nel 1949, ma è originario di Forlì e vive dal 1972 a Treviso. Si è laureato in lettere presso l’università di Bologna. Per anni ha collaborato alle pagine culturali dei quotidiani "Il Resto del Carlino", "Il Giornale", "la Repubblica", "Il Gazzettino". Fa il consulente editoriale. Per vent’anni ha lavorato per l’editore Garzanti e oggi dirige la collana di poesia Biblioteca dei Leoni. Autore di romanzi e di racconti, è conosciuto a livello internazionale per i suoi libri di versi tradotti in molte lingue. Della sua poesia si sono occupati criticamente nomi come Alberto Asor Rosa, Luigi Baldacci, Roland Barthes, Yves Bonnefoy, Robert Creeley, John Deane, Dario Fo, Giovanni Giudici, Alfredo Giuliani, James Laughlin, Pier Vincenzo Mengaldo, Czeslaw Milosz, Eugenio Montale, Alvaro Mutis, Cees Nooteboom, Giovanni Raboni, Vittorio Sereni, Andrea Zanzotto.

 



ANTOLOGIA DELLA CRITICA

BREVE INTRODUZIONE A PAOLO RUFFILLI E AI SUOI INTERPRETI
Paolo Ruffilli è stato accompagnato, con assiduità, lungo tutto il suo percorso creativo, da voci critiche di straordinaria autorevolezza: da Montale a Sereni, da Barthes a Czeslaw Milosz, da Mutis a Bonnefoy, da Bertolucci a Pontani, da Baldacci a Mengaldo a Porta.

Il dato non è casuale né ozioso. Esso riflette, piuttosto, l’esito e la risonanza, presso la ricezione critica, di un alto grado di ricchezza espressiva, di elaborazione formale; di una limpidezza, una naturalezza e un’immediatezza conquistate (ars celare artem) con un tenace lavorio, non certo dettate da una visione istintiva ed irriflessa. In particolare, inconfondibili sono lo stile, il timbro, il tratto, il ductus metrico e ritmico, in una parola la voce, del poeta e dello scrittore, variamente illuminata, nelle due diverse inflessioni, poetica e romanzesca, dai saggi qui riuniti: forse, a ben vedere, una delle più originali, nitide, coerenti e riconoscibili di tutto il secondo Novecento italiano, fra l’eredità cantabile e melodiosa della linea sabiana, fino a Caproni, e la ricerca di una classica naturalezza, di una cosciente limpidezza, perseguìta dalla scuola romana dei Salvia e dei Damiani; una voce che ha saputo fondere la lezione ungarettiana, richiamata da Sereni nella nota a Diario di Normandia (quella, cioè, del verso franto, segmentato, spezzato, conciso, della parola essenziale, rapida, ellittica), con una cantabilità, a tratti, quasi arcadica e settecentesca, metastasiana o mozartiana.

Ne nasce un effetto straniante, classico-moderno, novantico, una sorta di dicotomia o di diffrazione, semantica e temporale – come se su un’ode arcadica si innestassero i ritmi sincopati del cool jazz richiamati, a proposito di Ruffilli, da Alfredo Giuliani, o come se, analogamente a ciò che accade in uno Stravinsky, blocchi sonori regolari, ma pertinenti ad àmbiti tonali diversi, si sovrapponessero con effetti di dissonanza non sempre risolta – ma neppure precipitata, come nell’avanguardia, in un caos indistinto ed indistinguibile, e anzi in certo modo controbilanciata e modellata dalla limpida e melodiosa scansione del verso.

Si tratta – ed è, questa, una caratteristica non certo infrequente nella poesia del secondo Novecento, che tende a fare della coesistenza di persistenza e metamorfosi una delle sue cifre fondamentali – di una sorta di mobile immobilità, di perennità – della vita come della morte – che si diluisce e cangia nel divenire.

Emblematica la raccolta Camera oscura, sorta di bertolucciano romanzo familiare suggerito dalle foto sbiadite di un album. Nelle foto «l’urlo è muto e / sta bloccato il corso / nella sospesa evoluzione». Quello sta è investito di un valore pregnante, etimologico, latino, oraziano («vides ut alta stet nive candidum…), indicante la paradossale fissità del divenire, la perenne staticità del mutare di istanti indivisibili, di “atomi di tempo” danzanti e fluttuanti come le sillabe dei versi, i fotoni della luce o i frammenti della visione ricomposti dallo sguardo – tutte particole, tessere, omeomerie di esperienza, percezione, ricordo in perenne moto, eppure perennemente e paradossalmente coincidenti con se stesse, ruotanti come epicicli intorno al loro polo o al loro fulcro immateriali e sovratemporali, all’istante in qualche modo predeterminato e predestinato, immemorialmente, del loro ascendere alla luce definitiva del dire, pur nel loro inesausto movimento, e proprio per questo soggette, potenzialmente, alla cristallizzazione verbale operata dal verso. Istanti eterni, passato presentificato dal ricordo, e reso futuro dalla parola: processo, questo, destinato a rinnovarsi proprio nell’atto, e attraverso l’atto, della lettura e dell’interpretazione. «I vivi sono morti: / colti in assenze / di statuto, nell’atto / di discese senza porti / ma con le sue partenze / e i suoi arrivi. / Morti vivi». Nel divenire del tempo, della vita, delle vicende, gli umani sono, precisamente, gli athánatoi thnetói, thnetói athánatoi di Eraclito, che vivono la morte di altri, loro simulacri, ombre, figure rovesciate o predestinate alterità, e di altri muoiono la vita. Se non ci fossero, se non palpitassero e non ardessero, in Ruffilli, un’ostinata vitalità, una sensualità vivissima e ingenita, per quanto raffinata (esaltata in sommo grado in una delle raccolte più recenti, Affari di cuore), un amore incrollabile e gratuito per la vita e per il suo perpetuo presente, si potrebbe quasi citare ciò che Baudelaire diceva dei dagherrotipi, della loro fissità straniante e inumana, della loro smorfia feralmente grottesca, involontariamente e sinistramente caricaturale, proprio perché sottraeva l’istante il gesto lo sguardo alla naturalezza del fluire e del divenire – e ciò che egli aggiungeva del pubblico moderno, perverso e deforme Narciso che contempla se stesso non più nell’acqua viva, ma nel gelo del metallo, dissimulando davanti a se stesso la propria deformità, o forse godendone.

Eppure, in Ruffilli i «morti vivi» delle immagini fotografiche, autentici proprio nei loro non idealizzati, ma iper-realistici, simulacri, straniati semmai per eccesso di mimetismo, vivono e muoiono, fino in fondo, la loro dicotomia, la loro essenza antinomica. La vita vive e brucia nell’istante presente proprio perché insidiata dalla precarietà, dal divenire, dall’onnipresente e sostanziale possibilità della morte e della dissoluzione. Anche quando, ne La gioia e il lutto, Ruffilli guarderà all’eterno, si tratterà, forse, pur sempre di una montaliana «eternità d’istante», o di un dantesco «punto / a cui tutti li tempi son presenti». Come notava, a proposito delle poesie di Camera oscura, Roland Barthes, citando Blanchot, la scrittura è, emblematicamente, spazio di morte, e proprio per questo trova nell’immagine fotografica, nel gesto raggelato, nell’istante congelato, nel volto vivo eppure fossilizzato, nel muto riso, nello sguardo luminoso, eppure per sempre spento, il proprio análogon (e lo stesso vale per il respiro metrico, la cui frantumazione sottende però, e presuppone, il continuum del canto e del pensiero lirico).

Da La gioia e il lutto a Le stanze del cielo, Ruffilli si misura con l’abisso e il mistero del Male, che ha i nomi e le maschere della tossicodipendenza, del carcere, dell’Aids. E, come ha notato Alfredo Giuliani, «per misurarsi con il Male, usa i suoi mezzi di sempre: il passo felpato e breve, un partecipe distacco, la cantabilità sommersa e antilirica del ritmo sincopato». Il Male è eterno come l’Essere. «Il dolore è eterno, / ha una voce e non varia»; come dice Saba, in un testo – La capra – dal respiro metrico dolentemente cantato, non lontano da quello di Ruffilli, e nel quale dal singulto dell’enjambement il respiro si apre all’illimitato. «Solo chi sta / nel cuore dell’inferno / sa cosa sia / l’eternità presente». «Notte eternamente / luminosa / nella sua chiusa / fulminante assenza, / canto e armonia / che alita dentro / il tuo silenzio, / respiro che si tende / e gonfia all’infinito». Le misure dell’endecasillabo e del settenario continuano ad echeggiare, diffratte, come la turbata armonia di un canto lontano, sotto la superficie franta del dettato. E, insieme agli archetipi metrici, anche quelli culturali e intertestuali – sommessi, eppure sotterraneamente presenti, un po’ in tutta l’opera del poeta, apparentemente così nuda, diretta, disarmata – si agitano convulsamente sotto la superficie della pagina (basti pensare, nel cuore degli albori della modernità poetica, al «creux néant musicien», alla musique du silence, al soffio e all’afflato lirici – risonanti nel vuoto e dal vuoto del senso e dell’essere – cui dava voce Mallarmé). E la noche oscura del alma di cui parlano questi versi è quella di una mistica del male, del nulla, dello smarrimento, della perdita, che nasce però da una stessa disperata, a suo modo religiosa, ricerca e richiesta di senso, di eternità, di assoluto. La droga, insomma, come surrogato di Dio (come secondo Pasolini era un surrogato della cultura); Droga e Carcere come forze che isolano l’uomo, lo chiudono in una solitudine a suo modo, anche se perversamente e rovinosamente, mistica – come indefinibile del nostro essere uomini, approderà là dove «fluisce un grande / fiume di energia / che spande e che riversa / oltre le porte / l’eterno nel presente». Qui il Dante paradisiaco, il «lume in forma di rivera» si fonde con il Luzi del Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, con l’essere che insieme «è / e diviene, / eterno, inconsumato, / pari a sé». E la poesia, oltre il tempo e oltre il male, tocca un vertice assoluto. «Tal che in se stesso infine l’eternità lo muta» è, come recita un verso fin troppo citato, il poeta in quanto tale. A maggior ragione ciò varrà per un poeta come Ruffilli, diviso fra l’eternità e il divenire, l’istante e il perenne, la transitorietà e l’assoluto.

MATTEO VERONESI in Pentacordo per Ruffilli, Nuova Provincia, ilmiolibro.it, ottobre 2012

 


RUFFILLI MUSICISTA
L’idea di promuovere il varo del nuovo libro di Paolo Ruffilli La gioia e il lutto (Marsilio, 2001) mi riempie non solo di piacere, ma di orgoglio; perché ho seguito tutte le fasi della elaborazione del testo, le successive stesure fino alla versione definitiva che troviamo stampata in queste pagine. E, da testimone del lungo lavoro dell’autore, devo confessare prima di tutto a me stesso l’insieme di interesse e di stupore che mi ha accompagnato negli anni seguendo la composizione di questo La gioia e il lutto. Sì, l’interesse coinvolgente per le tematiche della morte e del morire, della sofferenza e del dolore, dell’ottica deformata secondo la quale i vivi osservano e accompagnano chi muore; e lo stupore, intanto, per il modo fresco e originale che Ruffilli teneva nell’affrontare argomenti apparentemente così intrattabili (e improponibili) per la loro condizione usurata e banalizzata dalla pubblicistica corrente e corriva, dall’approssimativa pratica dei nostri tempi anche nella stessa scrittura creativa in versi o in prosa.
Alla iniziale proposta della prima stesura di La gioia e il lutto da parte dell’autore, guardavo le pagine dattiloscritte con scetticismo prima di cominciare a sfogliarle, pur essendo uno dei "lettori di confronto" di Ruffilli per i suoi testi di poesia che mi ha sempre sottoposto prima della pubblicazione. Il poema mi ha subito preso: non mi aspettavo questa intensità e questa verità.
Odio il genere "compianto" o "lamento", ma La gioia e il lutto è tutt’altra cosa. è un entrare nelle ragioni della morte, fino a elaborarla, fino a lodarla (nell’ultima parte del testo). Quello di Ruffilli è un poema di speranza anche senza essere consolatorio: proprio perché non è consolatorio. C’è un modo di essere anche senza vivere. Io, ateo totale, ho apprezzato molto il significato religioso di questi versi, confermandomi nel sospetto che l’ateismo sia la condizione necessaria per la vita religiosa.
Da un punto di vista critico, la prefazione di Pier Vincenzo Mengaldo dice quasi tutto e c’è poco da aggiungere. Concordo sulla natura sincopata di questa partitura antimelodica. Lo sciorinarsi di questi versicoli mi convince: sono come il sottofondo musicale di una preghiera, qualcosa che non fa resistenza, che evita le insopportabili esibizioni dell’espressionismo. La partitura musicale è, del resto, la chiave per interpretare la poesia di Ruffilli. La sua riconosciuta "leggerezza" è l’effetto e la virtù di una misura appunto musicale che consente all’autore qualsiasi scelta proprio perché per via di musica ogni sua scelta si traduce immediatamente in una soluzione. è la musica che consente a Ruffilli di dar voce felicemente a qualsiasi tema e argomento di cui voglia parlare, anche il più ostico e apparentemente impronunciabile. è la musica che consente dunque di pronunciare le cose più ardue, rendendole semplici e coinvolgenti. Il poeta Ruffilli è un grande musicista e trascina nella sua musica sempre le cose che contano, parlando insieme al cuore e alla testa.
Quello che soprattutto mi interessa sottolineare in conclusione è che non mi accadeva da molto tempo di leggere una poesia così emozionante, così forte e angosciosa. Il libro di Ruffilli è di quelli che non ci lasciano tranquilli, anzi vengono a incunearsi nella nostra mancanza di tranquillità per restituirci paradossalmente slancio vitale.
Bellissimo libro.

LUIGI BALDACCI "poetry in Florence", febbraio 2001, poi in POETRY ONLINE maggio 2001


POESIA DELL’ANTIFRASI
Sappiamo da Blanchot che lo spazio della scrittura è spazio di morte. E Ruffilli può essere preso come caso singolo e singolare del modo in cui la lettera poetica sempre si dimostra lettera della trafittura, dopo essere stata per un attimo più o meno prolungato lettera della luminosità.

Nel riscontro che la sua poesia crea con le foto che ne sono il punto di partenza, ma in qualche modo già anche il punto di arrivo. In una atemporalità perplessa e allucinata che è quella della Fotografia, la cui evidenza conta non dal punto di vista della nostalgia-piacere, ma del suggello amore-morte che vi si è stampato sopra.

Non è frequente trovare effetti così inquietanti in un contesto apparentemente disteso e in aria di altrettanta leggerezza. La forza di questa poesia è nell’angosciare il lettore, incantandolo. E bene il poeta rappresenta, di riflesso e per piccole scaglie ingiallite, l’ "inferno" borghese: le manie, i vuoti, le crudeltà, certa follia, galleggianti oltre il decoro e la discrezione. è per quella legge dell’antifrasi, per cui tanto più è spietato il dettato, quanto più è affabile. E non si può non concordare totalmente con l’autore sulla natura tragica (eppure indicibile e pronunciabile solo per brevi formule volatili) dell’esistenza.

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Blanchot nuos a appris que l’espace de l’écriture est un espace de mort. Et Ruffilli peut être considéré comme le cas unique et singulier de la façon qu’a lettre poétique d’être toujours la lettre qui transperce, après avoir, été, le temps d’un instant plus ou moins prolongé, la lettre qui éclaire. Dans le rapport que sa poésie crée avec les photos, qui en sont le point de départ, mais aussi, de quelque manière, le point d’arrivée. Dans une intemporalité perplexe et hallucinée qui est celle de la Photographie, dont l’évidence n’est pas là pour perpétuer la nostalgie-plaisir, mais pour sceller l’amour-most qui s’y est imprimé. De la série d’épigraphes de cet "album de famille" s’égrène un propos qui, sans être évasif, veut raconter une historie en en récupérant les fragments réduits en cendres, pour les fixer d’un regard lucide et d’une mémorie d’autant plus sereine que possible. Ayant recours à un "alphabet morse" de quantités minimes origianl aussi qu’incomparable, d’où jaillit une musique contractée, rude, verticalement aiguë jusqu’à la limite même de l’audibilité. Opération critique, non pas rite d’exorciste. Ruffilli la réalise grâce à sa générosité certaine et à l’admirable souplesse de son style, à la fois "chroniqueur" posthume et témoin involontaire, affectueux et amer, qui se sert de la littérature, de la poésie, pour ne dire que le nécessaire. Il est rare de remarquer des effets si inquiétants dans un contexte apparemment décontracté à l’air aussi léger. Cette poésie a la force de ce qui sait angoisser le lecteur, tout en le charmant. Et le poète montre bien, indirectement, par de petites écailles jaunies, l’"intérieur" bourgeois: les manies, les vides, les cruautés, une certaine folie flottant par-delà toute dignité et toute discrétion. Cela en vertu de la loi de l’antiphrase, qui rend le style d’autant plus affable qu’il est le plus impitoyable. Et on ne saurait pas du tout contredire l’auteur sur la nature tragique (pourtant indicible et prononçable rien que de brèvres formules volatiles) de l’existence.

ROLAND BARTHES in "Cahier de poésie", E3, 1978, poi tradotto in "La filigrana dell’essere" 1979 e inserito come editoriale in P. Ruffilli, Camera oscura, Garzanti, Milano, 1992



IL "DISTACCO" E "IL VUOTO INTORNO". RIFLESSIONI PER UN ASSE LEOPARDI-GOZZANO NELLA POESIA DI RUFFILLI
La più recente stagione poetica di Paolo Ruffilli annovera due opere non solo senz’altro significative per la nuova poesia italiana, ma anche affini e contigue sotto molti aspetti: si tratta, in particolare, di Diario di Normandia (con la sigla DN citeremo dalla raccolta apparsa come testo a fronte all’edizione francese, stampata da Amadeus nel 1990) e Camera oscura (con una nota di G. Raboni, Milano, Garzanti, 1992; per tale volume useremo la sigla CO). In effetti, programmaticamente le due raccolte non celano di norma l’occasione-spinta da cui i singoli componimenti prendono avvio, quel dato figurativo cioè che in DN è rappresentato dagli "squarci di natura" (p. 39), mentre in CO dalle foto-"ritratto" (p. 90). A segnalare, da subito, come il punto di partenza di ogni risultanza testuale vada cercato in un quid di concreto e di esterno, di oggettivo insomma: ma è una realtà rugosa, ingombrante, da cui l’elaborazione creativa e psicologica attua una sistematica fuga, nella sua frantumazione-dissolvenza coscienziale. "è che non amo/gli squarci di natura/ se non da fuori/ del palcoscenico,/ da un giusto osservatorio" (DN, p.39); oppure: " la cosa consolante, bada,/ è il distacco/ che uno sente/ quasi incosciente,/ da ciò che accade" (DN, p. 45). Dirà Ruffilli nella più matura e pregiata raccolta del 1992 qualcosa di amaro e profondo sul tempo che annulla, secondo un nichilismo materialistico di matrice leopardiana sotteso a entrambe le opere: "col rimpianto/ che ogni cosa, incontro,/ tolga un grammo/ limando ogni giorno/ scavando, come l’acqua,/ il vuoto intorno" (CO, p.19). Ma "il vuoto intorno", per naturale reazione psicologica e formale, un po’ tutti i testi lo esigono, lo impongono intorno al reale: questo appare infatti triturato e franto negli echi lirico-mediativi che si allargano dalla nicchia interiore, dove il cronotopo contingente dello "squarcio di natura" e del "ritratto" è isolato e rivissuto. Non a caso DN risulta composto nel corso di quattro anni (dal 1975 al 1979), con una dilatazione cronologica che esorbita dall’immediatezza diaristica, solo apparente, o meglio svuotata. E le stesse sintetiche annotazioni paesaggistiche che aprono tutti i testi di DN tendono ad una dissolvenza fonico-ritmica più ancora che impressionistica del quadro, mediante l’uso fitto di assonanze e allitterazioni, di rime e parallelismi, e persino di musicalissime unità versali per lo più brevi (quinari, senari, e settenari), le quali hanno come oscillazioni estreme sporadici ternari ed endecasillabi. Lo stesso impiego delle rime, in questi versi di DN come pure in CO, appare sintomatico di una tendenza forte dell’ultimo Ruffilli, quella cioè di attingere da un prontuario facile, ma anche elettrico, per il cozzo di aulico e basso, comico e serio (cioè meditativo), come se certe arie e certa tradizione poetica protonovecentesca fossero rilette con un personale gusto che da una parte rimotiva il canto con l’indugio riflessivo, dall’altra lo stempera e relativizza con una strategia gozzaniana, anche per l’arguta (semi-)svalutazione riservata alla funzione poetica, "piccolo pesce/ dei lofobranchi/ azzurro delicato" (DN, p. 23). In CO leggiamo così cortocircuiti rimali e tematici che si nutrono di un mondo preso nella dialettica di malattia e accensione vitale, censura e trasgressione, sordina neo-crepuscolare e fermo impegno analitico-filosofico; per quest’ultimo Ruffilli sarà con ogni probabilità da vedere come una delle voci più intimamente leopardiane nella nuova poesia italiana, vuoi per le evidenti sintonie di pensiero, vuoi anche per la scrittura che fonde prosa e poesia, speculazione e lirismo. Di questo campo di forze basilari, costitutive e complesse, emersioni assai indicative sono quelle poste in rima, come si diceva: si vedano, per esempio, "dito: infinito" (CO, p.25), "colpa: polpa" (CO, p. 59), oppure "svantaggioso: coso" (CO, p. 65).

Come in DN architettura e cronotopo diaristico sono svuotati dall’interno, costituendo solo un pretesto, uno spunto per successive elaborazioni, così il racconto famigliare di CO rappresenta il primo stato espressivo, via via dissolto e anatomizzato dalle graduali prese di coscienza. Con l’attacco stesso dell’opera infatti – quel foscoliano "forse, perché/ nel pacco delle foto" (CO, p. 9) che mediante l’oggetto minimale della fotografia, caro anche a Gozzano, sembra voler mimetizzare e frenare il tono di fondo – si introduce un clima misurato di raccoglimento, il quale si distende su tutta la raccolta modulando l’arrangiamento endogeno, interiore dei referti esterni cui si accennava sopra. Ed essi vengono coinvolti dal cuore pulsante più profondo e fertile di questa ultima stagione, quando attivano la dialettica di senso della morte e dell’"eccitante" (CO, p. 42), che si stratifica negli esiti probabilmente più alti e memorabili, dove l’autore rievoca le intensità e i tremori per la scoperta della sessualità nei giochi e nelle strategie infantili, oppure dove racconta i fili vibranti e insieme complessi che lo legano alle figure del padre e della madre. Ma davvero impressivi sono anche i testi in cui l’io senza schermi si pone in un’area tanto novecentesca quanto gozzaniana: la zona d’ombra della perplessità, dove il sentimento dell’inettitudine radica nella consapevolezza dello "scompenso" – usando un termine debenedettiano – fra desideri e realtà, consapevolezza che qui fa tutt’uno con l’avvertimento del vasto, leopardiano smottare della vita-materia, che "scorrendo resta", ma "per sempre ci scompare", come aveva chiarito fermamente DN (p.45). Allora il passo dovuto sarà quello di fare-constatare "il vuoto intorno": "la cosa strana è che/ non mi sentivo/ essere, affatto ma/ proprio già passato./ Come colto e fermato/ di volta in volta/ in quella posa/ contro il muro./ Allontanato da me/ e, in parte, escluso/ da ogni possibile futuro" (CO, p. 79).

LUCIANO BENINI SFORZA in "I Quaderni del Battello Ebbro", n. 22, giugno 1999


MINIMO CONTRIBUTO CRITICO A PROPOSITO DELLA RACCOLTA "QUATTRO QUARTI DI LUNA" DI PAOLO RUFFILLI
Quattro quarti di luna ha la qualità di diario un po’ scorticato, che è proprio della poesia moderna. La generazione di Ruffilli ha superato l’impasse dei modelli, anche affascinanti, che paralizzavano le generazioni precedenti. è’ un fatto positivo, dal quale bisognava partire. Ma occorreva andare avanti, come appunto qui fa Ruffilli, al fine di inglobare il diario, senza tradirlo, in una musica che fosse nuova. Ma che musica fosse. Ruffilli, dunque, ha colto questa nuova musica; si tratta ora di lasciarsi andare e insieme di possederla, interamente.

Voglio dire che ai risultati già ragguardevoli (La libreria del Cedro, la sezione Verificato per censura, La vanità di leggersi sono cose di prim’ordine) si imporranno successive correzioni, nella definizione della "nuova strada" della poesia. Questo è quanto suggerisce, consapevole l’autore, lo stesso libro, stimolante e, per certi versi, provocatorio dalla prima all’ultima poesia.

ATTILIO BERTOLUCCI in "QUINTA GENERAZIONE III", n. 6, novembre-dicembre



CHAMBRE NOIRE
«La zone du concret, de ce qui est aussitôt identifiable» constitue, selon Giovanni Giudici, le territorie où Paolo Ruffilli procède à ses notations sceptiques, entre le pragmatisme d’une parole souvent infléchie ou voilée, et le désir têtu d’un récit dans le poème, d’une durée conquise à travers la juxtaposition apparemment chaotique d’instants paradoxaux, d’occasions manquées, de non-sens. Une forme, celle de la canzonetta médiévale, transparaît sous les longs poèmes de Ruffilli comme, chez Caproni, dans la Semence des larmes: «pauvreté raffinée» et «musique qui se rétracte» sont, d’après Giovanni Raboni, des vertus communes aux deux poètes. L’intervention fragmentée de diverses voix, le rythme impératif des vers brefs, le collage de brides devenues lieux communs, sentences creuses, incitations vagues, proviennent d’une réalité prosaïque et tendent vers un terme sans qualités: forme boiteuse ou totale déperdition. Mais par-dessus tout compte l’espace du dehors, qui met la langue au défi de le nommer ou de le dissoudre, par la désignation des choses qui en réalité les effece: devinant qu’affronter l’essentiel serait risquer le mutisme, Ruffilli met bout à bout des simulacres de la mémoire, des fragments recomposés qui, soustraits au réel où ils furent dits (rencontres, dialogues…), tressent le fil ininterrompu d’autres histories, d’autres enchaînements d’images et de gestes, d’une autre forêt des noms. Dans Camera oscura (Chambre noire), publié en 1992, Ruffilli parcourt un album de famille, l’acuité même de son regard le préservant de la nostalgie. Quels faits, dans sa plus proche généalogie, que celle de la mémoire, appellerait une image fixe, définitive, non le miroitement du souvenir. Mais cette image demeure interdite et ce sont des mots qui se présentent, où l’on se perd. Où les faits se fossilisent, inatteignables mais exempts de douleur.

YVES BONNEFOY in Lingua, gennaio 1995


RIPENSANDO A NATURA MORTA DI PAOLO RUFFILLI
Per Paolo Ruffilli poesia è inquisizione, ricerca di trame profonde e impensate attraverso una immaginazione che trasvaluti i canoni romantici del termine. Penetrare nell’immagine, trafiggere e valicare l’evidenza, immaginare. Avere di mira la saturazione, assumere l’oscurità che alla luce intrinsecamente compete, invenire la verità – il poeta ha detto – «del retroscena», vincolandola allo strato della scena. Non siamo quindi di fronte a una forma di irrazionalismo o a una poetica dell’ineffabile: effratto il limes dell’evidenza, cioè dell’erronea cognizione, il principio di trasfigurazione immaginifica fa riapparire nella sua pregnante immediatezza ciò che di quello che denominiamo ‘realtà’ permarrebbe inaccesso a ogni visione superficiale e pregiudizialmente difettosa. Come scrivevo in Ombra densa per le ortensie di Trouville…, mio contributo a Pentacordo per Paolo Ruffilli (ilmiolibro.it, Roma 2012, che comprende un dialogo con il poeta su Natura morta), la facoltà ruffilliana di imaginatio è metafisicamente fondata e insieme immersa nella corposità delle sensazioni e delle percezioni. Stando alle affermazioni di Ruffilli, essa è attitudine a immaginare alla maniera einsteniana, in tendenza dunque tutt’altro che campata in aria e tutt’altro che priva di fondamenti e di appigli nel mondo reale, avendo il coefficiente fantastico restituito all’evidenza intimamente a che fare con il fondale delle insospettabili stratificazioni e con la fattualità di fondo dove si sta fattivamente scandagliando. Niente di piú lontano dalla fantasticheria e dalla immaginosità gratuite e svincolate.
Allora, è solo in virtú di una finzione – quale atto, esito del ‘fingere’, cioè, nel linguaggio di Ruffilli, del «dare forma» al vero – avente finalità conoscitive che la parola tornerà da lontano, affrancata «dal groviglio», sia del mormorio indistinto, sia del nodo occasionato dall’afflusso dei referti del sogno, e con l’abolizione di quanto vi è di accessorio essa è ora abilitata a nominare – e il nome sarà sempre sostantivo concreto –, vale a dire a presentificare, «il corpo dell’ombra». Il momento di illuminazione accade «di colpo», in altri luoghi Ruffilli dice «all’improvviso», e coglie di sorpresa, ma il «flash inaspettato» è destinato a perdurare fuori della sfera dell’arte?

Si stacca la parola

Ecco che di colpo
riesco a dare
corpo all’ombra,
si stacca la parola
dal groviglio
e dà forma al fantasma
figlio del sogno
che si sveglia
e respira
il respiro della vita
con il suo peso
e con la meraviglia
che il carico deforma
e che potenzia
mentre lo assottiglia.

«Si stacca la parola», immagine erompente che «di colpo» elide l’interdizione delle trame dell’apparenza. L’atto semantico si ha solo in séguito a un incontro incidentale e insieme strenuamente ambíto. Se l’immaginazione – quella produttiva cui si rimette la scienza –, volontariamente esercitata, costituisce la costante metodica ruffilliana, casuale è l’occasione rivelatrice del senso «del retroscena». Tuttavia, la madeleine in Ruffilli appare ricercata, voluta, e si complica per il carattere di sfocatura (carattere che resta estraneo al sensibilismo impressionista) della traccia, dell’istante rivelativo ma fuggevole che la stessa fotografia – cosí in Camera oscura – si illude di trattenere. Va a interferire con l’intangibilità e l’impermanenza di fragili e potenti dettagli indicatori dell’invisibile, con immagini riflesse o date in filigrana. Con rifrazioni di ombre che localizzano l’imminenza di una pienezza còlta nell’istante del suo sfarsi. E soprattutto, tali dettagli – i «segni», i «dati» trattenuti di Camera oscura – non attengono unicamente al ritrovamento del tempo, o alla verità del ‘tempo ritrovato’: il frammento di passato è irreperibile anche perché frammisto al desiderio che inibisce ogni trascrizione che aspiri a restituirne l’originale. Se i segni sono, come sono, in grado di illuminare un’intera vita o soltanto frazioni della vita, paiono comunque prossimi alla rarefazione perché essi stessi divenienti. Sono prossimi alla rarefazione anche per via di quella nozione di distanza che in Ruffilli si flette in due modi: la distanza da noi è altamente retrospettivante, viene detto in Diario di Normandia; ma ‘distanza’ designa al contempo l’inadeguatezza dei nostri strumenti conoscitivi, per cui guardiamo le cose dall’esterno lasciandoci sfuggire particolari essenziali non immediatamente assimilabili.
A cosa afferisce il reperto dell’immaginazione? O detto altrimenti: cosa implica «dare corpo all’ombra»? Nel dittico vuoto/pieno, o concavo/convesso, il tramite per colmare l’opacità è l’atto del nominare, il configurare, l’invenire una forma che comunque trova l’opposizione delle cose: per il loro statuto duale e per lo spessore dell’evidenza che le alona. La parola in Ruffilli ha sempre sopravanzato la realtà per la sua idoneità a tradurre il senso dell’esistenza. Avvertita come un «a priori», un «eccitante» – ma senza ricadute nell’estetismo – è lo strumento tramite il quale oggettivare lo sguardo umano indagatore nelle stratificazioni dell’apparente. Se da un lato è piena di assenza in quanto si pone come ricettività al senso, anch’essa vuoto da occupare, dall’altro, la parola poetica costituisce qui l’elemento di differenziazione, anche per il suo scarso indice di allusività: differenziazione dal nebuloso profondo ai confini con l’incognito, dalle risonanze incerte che prevaricano la luce implicata nell’ombra, dallo status vaghissimo e affastellato istituito dai fantasmi del sogno in vista di una loro identificazione. È dai tempi di Quattro quarti di luna del resto che quella del linguaggio poetico – del «quale linguaggio per cercare» in Natura morta – viene sentita da Ruffilli come la questione assolutamente prioritaria, per lo meno in termini di insufficienza di un codice scevro di sostanza vivente.

Conosco le parole piú squadrate,
battute a fuoco lento
contro muri spessi di cultura,
e discorsi di logica
incatenati all’astrazione,
ma non persuadono piú
neppure un grumo del mio corpo
fradicio di giovinezza.

Ora, è evidente che qui Ruffilli deprivi di essenza non solo l’astrazione nell’accezione di arbitraria costruzione del pensiero o di un fantasticare utopico, quanto anzitutto nel senso di tenere idealmente distinte proprietà parziali di un oggetto, dell’enfatizzare, in altre parole, una delle componenti di una nozione prescindendo dalle altre. Tuttavia, per Ruffilli l’uomo ha sempre istintivamente esercitato l’astrazione come meccanismo di difesa nei confronti di una natura soverchiatrice, si legge negli Appunti per una ipotesi di poetica che chiudono Natura morta: l’utilizzo di simboli sorge dall’esigenza umana di «ridurre a processo mentale la realtà per conoscerla e dominarla». E se nella sezione conclusiva di quest’opera, «Piccolo inventario delle cose notevoli» (dove la riflessione si trasferisce al corpo vivente, al di qua, tuttavia, di seduzioni paniche, dal momento che l’uomo, in forza delle sue facoltà pensanti, resta separato dal resto dell’esistente pur condividendone la destinazione) si assiste all’inveramento di cognizioni astratte nella concretezza dell’esperienza è anzitutto perché l’alfabeto ruffilliano ambisce ad assolvere a questa funzione, là dove reale, e contraddittoriamente unitario, è il fondale nel quale l’immaginazione dà corso alla sua opera di rilevamento. Dare corpo all’ombra non ha quindi piú di tanto a che fare con istanze memoriali ma consiste nell’accordare spaziosità alla vacuità. Sottilmente invertendo la linea del percorso astraente che mira alla parzializzazione dell’oggetto, ciò che è individuale contiene la totalità e si fa vero nell’acquisizione di realtà.
Il vuoto è il presupposto dell’esistente, il contenitore che attende il suo contenuto. Il senso è allora un nostro artefatto? Si potrebbe replicare sia affermativamente che negativamente. È un artefatto umano perché è l’esito di una indagine condotta secondo i paradigmi dell’immaginazione. Non lo è perché è la necessità fisica, o di natura, a dominare l’esistenza anche dove sembrerebbe regnare il caso. «Il caso è un nome / della necessità», abbiamo letto in Natura morta. Still life in lingua inglese, dove still traduce ‘inanimata’, ‘immobile’, ‘calma’, ‘silenziosa’: perché Ruffilli ha assegnato un titolo allusivo a un genere pittorico che rimanda all’immobilità anziché a quella metamorfosi che sembrerebbe preponderare nella sua opera? Forse perché le fasi sincrone della dissoluzione e della generazione si offrono a una contemplazione istantanea? O per il fatto che il valore aggettivale di ‘calma’ e ‘tranquilla’ si accorda con la sensazione di quiete (definita «il passo della vita», «la regola del mondo») restituita da una voce narrante unitonale e quasi spersonalizzata nella sua pensosità, che per lo piú si limita a osservare, definendole, le vicende alterne della materia, e dell’uomo quale suo riflesso in una dimensione pensante? Certo, c’è l’idea di voler catturare il lato che delle cose resiste all’obsolescenza rispetto a quello che deperisce e viene a termine. Soprattutto c’è l’idea che ciò che sembra morto è, come Ruffilli ha detto, solo «apparentemente morto, continua ad essere molto vivo». E quindi è su life, sulla vita che continua e non sul decesso, che Ruffilli pone l’accento.
Forse c’è anche il riferimento a una permanenza diversa, non unilinearmente configurata, come in Teilhard de Chardin, in virtú di deviazioni di traiettorie luminose che non precludono il particolare minimo, infinitesimo ma significativo. Per quel carattere, inoltre, di una esistenza procrastinata (quello stesso galleggiamento, quell’abbandonarsi alla sospensione perpetua della condizione insulare, all’immaginazione ad opera del sogno, della trazione della memoria che abbiamo visto marcare estensivamente il romanzo L’isola e il sogno prima della death by water) e, al contempo, per la pienezza, totalità e perfezione, per il sovrano margine di autonomia di cui viene fruire – «di colpo», «all’improvviso» – ogni singolo elemento compositivo. Oppure, viene da pensare a certe nature morte primonovecentesche, in cui tutto appare mobile, corpularistico, animato, mutevole, come vi si fosse instillata una vibrazione che si irradia a tutta la superficie pittorica, nella quale il corteo di oggetti che vi sono inclusi, che dovrebbero costituire il centro di interesse, appare decentrato e posa su un piano dato per approssimazione, e deborda finendo per partecipare della stessa sostanza dello sfondo, cosí mimando la contestualità del diverso. O ancora, come sembra suggerire Ruffilli nelle note sulla sua poetica, la rappresentazione artificiale dà il nome a quella che potrebbe essere l’originaria. Nella natura morta nulla è disposto casualmente: ogni singola entità entra in relazione con il resto e vive la contraddizione nella rivelazione degli opposti, e in questa prospettiva essa potrebbe funzionare da parafrasi all’enigma insito nell’ordine necessario.
Il sintagma natura morta è comunque addotto a siglare una antitesi, la persistenza della vita in un contesto di disfacimento, la mobile immobilità, l’idea del movimento rappresentato attraverso figure immobili, silenti testimoni della metamorfosi, e quindi reso eterno. Un’antitesi che volga l’ispirazione alla pronuncia di una realtà in difetto di nome, che traduca la continuità temporale del «durare anche nell’assenza // per la permanenza del principio» (e gli esempi in tal senso si disseminano nell’opera). Ruffilli stesso avverte: «Ma la natura morta / non è senza vita: // tutto si trasforma senza cessare di essere»; la trasformazione è rigerminazione, e «solo ciò che si trasforma è destinato a durare». Vi risuona una remota eco ortisiana (lettera del 13 maggio): «La materia è tornata alla materia; nulla scema, nulla cresce, nulla si perde quaggiú; tutto si trasforma e si riproduce».
In La gioia e il lutto la verità della vita era una labile acquisizione dell’essere morente, della figura di trapasso: «La verità che si apre / e si richiude sull’ignoto». E questo assunto potrebbe essere esteso al balenare transitorio dell’istante duale degli ineliminabili contrari, e dunque della realizzazione della pienezza dell’esperienza. Perché nella contemporaneità degli opposti (sotto il profilo del tempo, il gozzaniano hic crisalideo del non piú-non ancora, dove «la vita / sorride alla sorella inconciliabile / e i loro volti fanno un volto solo», ricorrente anche nelle sue opere in prosa) sopravvive il principio della contraddizione che ratifica l’essere intrinsecamente coerente del radicalmente disuguale: principio che per Ruffilli costituisce, come ha asserito, «il vero mistero della vita e della morte, la vita che germoglia dal niente e dal vuoto». È il coefficiente gioioso del lutto, come designato per condensazione nell’azzardosa diade del libro sull’Aids, che fonde i territori contermini dell’esistere.

È la realtà incoerente,
il vuoto e il pieno
della vita, la sua
andatura intermittente,
la misura finita
e balbuziente
del nostro piede
incespicante
scivolato sul niente,
il lato e dato
umano della storia.

«Peso» e «meraviglia» della vita – in Si stacca la parola – sono ingredienti contrari che condividono delle caratteristiche, l’uno è il prodotto dell’altro, sono concomitanti, causale è il nesso della loro reciprocità. Il «carico» dell’esperienza li «deforma», perché l’esistente è soggetto a mutamento, alla liquefazione cui segue una ricreazione: esso è «gioia» e «lutto», vita che si rigenera dal vacuum che presuppone («di quanta morte / necessita la vita / per fiorire», Natura morta), esistenza conferita qui da una sostanza verbale che si dissimila dall’indifferenziato e dal suo statuto di intermittenza («fingendosi un istante / eterno il mondo / prima che la traccia / slitti via / cadendo a fondo», Affari di cuore), performando, e fissando «il nome della cosa / immaginato» per lo meno sulla pagina scritta.
Rinvenuta per dare nome e «solidi confini» all’essere – e al pensiero che vi si riferisca –, la parola poetica non gli somiglia perché l’esistente costantemente trasmuta. Tuttavia, specularmente, la parola di Ruffilli, benché limpida e circoscrivente le forme mutevoli e all’apparenza disperse, leggera e pregna, talora cambia di contesto migrando insieme a singoli versi o ad intere strofe da un’opera all’altra, divenendo anch’essa forma mutevole e reattiva in assetti nel frattempo profondamente evoluti. Stilema che adombra una mimesi anche sotto il profilo testuale di uno stato delle cose: orizzonte aperto che suppone che l’inchiesta tesa alla adeguata immagine non sia mai finita. La tendenza all’iterazione in Ruffilli è ben lontana dal risolversi in una gratuita replica del già scritto o in un postmoderno cimento combinatorio. L’iterazione piuttosto differisce le tracce indiziarie di un percorso cifrato, alluso al lettore che sia attento a correlare sensi già comparsi a nuovi nessi tutti da definire. Come in una fuga di Bach, che ridesta e rinnova costantemente il tempo nel momento stesso in cui pare sospenderlo e annullarlo nella perfezione formale.
La metamorfosi effetto della contraddizione implica che il «carico» empirico incrementi e contemporaneamente sottragga o arrotondi per difetto (sebbene in Ruffilli l’atto dell’assottigliare istituisca in linea di principio un accrescimento di carattere qualitativo, in quanto essenzializza attraverso l’esclusione), senza che si verifichi alcuno scontro dialettico, il «respiro della vita» («È / il moto, sí, che / mette in relazione / con le cose e… fa / presenti le distanti / e le vicine subito / vacanti», Piccola colazione), attraverso quella «operazione fondamentale di riconoscere ed eludere» che Ferruccio Ulivi tempestivamente indicava come istanza di Ruffilli fin da Quattro quarti di luna. Cogliere recto e verso di ogni cosa, che mai è data unilateralmente e irreversibilmente: questa confluenza di due in uno è l’essere dato che viene reso da Ruffilli sul filo sottile di un ossimoro esteso che incorpora una opposizione senza conflitti. Vale a dire, al di là dei canoni della logica, sugli esseri e sui fenomeni domina il «principio di contraddizione», cioè domina la contraddizione come canone dell’unità. Una contraddizione che non si dà con lo scorporamento di segno e senso, che non inscena alcun dissenso nei confronti dei significati condivisi. Nella prospettiva della coniunctio oppositorum, «col sogno dell’accordo / in perfezione» (ancora in Piccola colazione), è dato addomesticare la resistenza della realtà che si agita e «respira» al di sotto dell’evidenza.

ELISABETTA BRIZIO in Per legame musaico, ilmiolibro.it, Roma 2017

 

IL NOME E L’ENIGMA. Nuovi tentativi di avvicinamento a Natura Morta

(Passa la forma,
muore si dissolve
per sempre ci scompare.
È la materia, dicono,
che scorrendo resta:
si trasforma cambia
si deforma,
senza cessare d’essere.)


Bernières, Calvados: 18 agosto
(Diario di Normandia)

Il soggettivismo non schiaccia mai Ruffilli, in poesia, anche se fino a un certo punto egli vi ha trasfuso molto di sé. Ecco, qual è questo punto? Il momento dell’abbandono della misura soggettiva per una riflessione versificata sull’altro da sé? Forse, La gioia e il lutto e Le stanze del cielo. Ma nel successivo Affari di cuore si incaricava di affrontare direttamente – e inevitabilmente con il coinvolgimento dell’esperienza personale – la fisiologia dell’amore, insieme a quello che negli Appunti per una ipotesi di poetica, a chiusura di Natura morta (Aragno 2012), egli definisce il «salto nel vuoto che l’amore pretende» (ricordate L’isola e il sogno?). Con Affari di cuore la biografia sembra riacquistare i suoi contorni, ma piú che una ricaduta in una anamnestica personale si tratta qui di misurarsi con il tema amoroso – e ‘tema amoroso’ non è la migliore espressione in quanto rinviante a un che di scorporato –, dunque di trattare l’amore (emozione choc, eros, istinto, affetto, idealizzazione) senza tergiversare, osservando il love affair dall’interno. Perché, Ruffilli lamenta, la poesia, la grande poesia, tranne qualche sporadica eccezione, tende ad aggirare l’ostacolo, a smussare gli aspetti piú aspri dell’amore. Non sfugge a questa tendenza Montale, che esibisce senhal, donne dello schermo e figure salvifiche che si rifanno agli angeli dello Stilnovo, figure che in fondo finiscono per essere non troppo dissimili dagli «emblemi eterni» e dalle «evocazioni pure» di Ungaretti (Memoria d’Ofelia d’Alba), pur da Montale per altri versi cosí lontano.
     In Affari di cuore imperversava una soggettività dirompente: di chi era? Sembrava attenuarsi la prospettiva indicata da Pier Vincenzo Mengaldo del Ruffilli che «pensa poeticamente»: la dimensione pensante qui appariva parzialmente compromessa in quanto molti versi disegnavano una quasi tangibile materialità dei corpi, niente affatto stilizzata e sublimata. È il riverbero delle storie intime del soggetto dell’esperienza ciò che a una vista esteriore costituisce la vera trama di quest’opera? Non lo sappiamo, ma non possiamo fare a meno di notare che anche in questo caso Ruffilli ha seguito il metodo della immersione, senza alcuna mediazione esterna.
     Ogni autobiografia protratta sconfinerebbe nella finitezza e indicherebbe un termine, sicché la nozione di tempo sarebbe destinata ad un arresto. Ruffilli ovviamente lo sa, secondo lui il tempo è «una delle dimensioni in essere», e il passato è un fattore anticipante. Identificare nel passato, pur nel costante flusso temporale, un dettaglio indicatore di una dissomiglianza, di un divario, sorprendere qualcosa di non compatibile con il presente è anche prendere atto di una discontinuità che, se ricomposta, restituisce il sentimento temporalizzato dell’adesso-sempre del tempo. Cosí in Notizie dalle Esperidi: «Alla sconfitta del presente / resta illusione / di dominare ciò che è trascorso. / Eppure esiste / il punto di rottura, / passo da cui proceda evoluzione (‘di sé non solo conoscenza / ma negazione’)».
     La biografia, quello che Ruffilli chiama «il confronto con se stessi», deve trarsi dalle implicazioni individuali e farsi inchiesta e confronto generazionali, per focalizzare l’intrico di fattori (ambientali, pulsionali, ecc.) che hanno costituito lo sviluppo dell’io. È quindi essenziale una «biografia interiorizzata», cioè «sottoposta al vaglio di quell’artificio che rende possibile la conoscenza». Come nelle foto in versi di Camera oscura, la vita necessita di una visione in profondità: le cose, indizi segni dati (defilati, marginali, ma insignificanti mai), una volta stazionati nella mancanza della luce, acquisiranno luci e colori. Come negli spazi interni di Piccola colazione, lo stato claustrale è la condizione per la conquista dell’esterno. Allora, un’azione può determinare una reazione contraria. Ed è anche cosí che si compie il nostro percorso identitario.
     Tuttavia, ciò che importa ora è sottolineare, con Natura morta, il distacco definitivo dalla dimensione della autobiografia, importa rilevare una impersonalità conseguita, la neutralità dello scrivente, perché intrattenersi esclusivamente sulla singola esperienza – circostanza che per altro non ha riscontri ossessivi in Ruffilli – precluderebbe il definire la vita, o la definirebbe come qualcosa di troppo privato, troppo breve, di colpo conclusa. Soprattutto troppo parziale, limitata: delimitata. Con Natura morta siamo invece nel campo del generalizzabile. Il sottotitolo suona: Aforismi e frammenti da una Cosmogonia ritrovata con un Piccolo inventario delle cose notevoli e Appunti per una ipotesi di poetica. Aforismi: cioè qualcosa che compendia e condensa tutta una serie di acquisizioni e di esperienze, che esprime un ideale di saggezza. Dunque, una pronuncia definitoria. Ma al tempo stesso, come nel caso del Nietzsche inattuale, prolettica, precorrente – ma non profetica –, visto che le cose prendono una designazione nell’atto stesso di esporle, narrando. I risultati della ricerca di Ruffilli si manifestano mentre la ricerca è in opera, mentre si compie. Sorge quindi il problema della traduzione in parole: il nome c’è, ma quanto è adeguato a significare il dinamico e contrastato spazio esistenziale nel quale il dinamismo trova la sua articolata dialettica? A significare il suo teso e profondo e corrugato moto espressivo, la sua problematica declinazione-implosione verbale e stilistica? Ciò che insomma si vuole oggettivare è uno stato metamorfico, il che non è sempre una scommessa vinta: di qui il carattere sperimentale dello stile aforistico che mira a nominare la mutevolezza e la contraddizione, cioè i motori del mondo. E nominare la mutevolezza implica il diventare pensante-immaginante-interrogante del soggetto lirico, insieme alla assunzione di un marcato tono aforistico, talora con tendenza all’epifonema. Dicevo: ‘sperimentale’; sperimentale ma non distorcente,  rapsodico ma mai incline all’infrazione dei significati condivisi.
     Quanto a frammenti: non solo schegge dell’anima di una modernità che ha eroso il suo centro. Se c’è da assumere un linguaggio per designare ciò che è allo stato di latenza, questo non può darsi che per lampi e barlumi (‘barlume’: luce balbettante, lume indistinto, indizio fuggevole). Non a caso Ruffilli è indifferente al fatto comunicativo, e ha l’onestà di dirlo. L’esigenza della comunicazione è esclusa dal suo orizzonte, d’accordo. Tuttavia il coefficiente di empatia tra autore e utente comunque sorgerà, se sorgerà, se colui che nel suo caso non siamo neppure autorizzati a chiamare ‘destinatario’ della sua scrittura sarà in condizioni di captare qualcosa che lo metta in sintonia. Dice Ruffilli che «ogni percorso di gnosi è sempre una pratica esoterica», un esercizio che misconosce limiti di carattere sociale o socioculturale, e che si dispiega senza che ideologie o convenzioni convenute intervengano a limitarla. Ci si riconosce, ci si intende al volo, oppure no, tutto qui. Ruffilli scrive per sé seguendo una ossessione di ricerca «in chiave di gnosi», una conoscenza quindi superiore, piú sofisticata.
     Ma come intercettare ciò che non è evidente, o che è caratterizzato da un rilievo incerto? E come rendere espliciti a se stesso gli esiti di questa ricerca? Se ciò che riveste maggiore importanza dell’evidenza è l’assenza? Paradossalmente, l’assenza è l’archi-elemento, lo «stampo» e l’«impronta» del fattuale e dell’essere vivente. Piú che presenza mancante, assenza è poter essere. Alla prima questione risponde il paradigma della immaginazione, fondante in Ruffilli solo se non assunto nel suo senso romantico ma in accezione ensteiniana. Come dicevo – rimettendomi alle affermazioni di Ruffilli – nel capitolo a lui dedicato in Per legame musaico, l’immaginazione è attitudine a immaginare in tendenza tutt’altro che campata in aria e tutt’altro che priva di fondamenti e di appigli nel mondo reale, avendo il coefficiente fantastico, ricondotto ad evidenza in vista di una sua dimostrazione, intimamente a che fare con il fondale delle insospettabili stratificazioni, con strutture nascoste e con la fattualità di fondo dove si sta fattivamente scandagliando. Niente di piú lontano dalla fantasticheria e dalla immaginosità gratuite e svincolate. Che altro fa il metodo della scienza per avvicinarsi alla verità se non partire proprio dalla finzione nei test di laboratorio? L’immaginazione è finzione nel pensiero; fingendosi qualcosa – Leopardi, Pessoa, per fare solo due nomi – prenderà forma una verità sfuggente e mai a fuoco qualora cercata per altra via. Fernando Pessoa, sulle «meraviglie fluide dell’immaginazione»: «M’indoro di tramonti ipotetici, ma l’ipotetico è vivo nella supposizione. Mi rallegro di brezze immaginarie, ma l’immaginario vive quando lo si immagina. Ho un’anima per varie ipotesi, ma quelle ipotesi hanno un’anima loro e perciò mi offrono l’anima che hanno. Non c’è altro problema se non quello della realtà, e questo problema è insolubile e vivo. Che so io della differenza tra un albero e un sogno? Posso toccare l’albero; so di avere il sogno. Cos’è questo nella sua verità? Cos’è questo? Sono io che da solo nell’ufficio deserto posso vivere immaginando senza detrimento per l’intelligenza» (Il libro dell’inquietudine, tr. it. di M. José de Lancastre e A. Tabucchi).
     Per rispondere al secondo interrogativo, che verte su «quale linguaggio per cercare», è necessaria una riconsiderazione della materia linguistica. Disponiamo di suoni limitati per fare discorsi infiniti, e questo è speculare in poesia, dove siamo di fronte alla brevitas di un discorso che di fatto si dilata a significare la vasta assenza che ci pervade. L’assente, ciò che ha maggiore rilievo, viene alluso, detto, evocato, significato altrimenti rispetto alla via canonica suggerita dalla logica: per astrazione emblematica, simbolicamente, per alchemica combinazione verbale. Ovviamente questo processo in Ruffilli esula dalle convenzioni della retorica e mira alla ellissi, ad alleggerire la scrittura, all’essenzializzazione dei nomi e al diradamento della sintassi.
Parliamo una lingua o ne siamo parlati? La lingua è metamorfosi, vive morendo o muore vivendo, è «in essere». Non è il nome – la poesia – ad attuare la metamorfosi (può esserlo nella sfera privata), esso si limita a testimoniarla. E per paradossale rovesciamento, secondo la legge dell’«inversamente proporzionale», «piú basso è il tono e piú alto è l’effetto», il sublime, ciò che sta sotto la soglia, risulta-risalta non dall’enfasi o dalla deriva ridondante ma dal sottotono, dal tonalmente inferiore. Per questo principio la leggerezza della parola, fatta di vuoto e di assenza, è un richiamo al lettore idealmente affine a quel medesimo grado di allusività.
     La musica è per eccellenza metamorfosi e stabilisce una estensione ininterrotta tra ambiti, canoni e prospettive. Ha che fare con il tempo e, come il tempo, non esaurisce il proprio corso e il proprio scorrimento. Poesia e dimensione musicale, un binomio onnipresente nell’opera di Ruffilli; ritmandosi, la parola poetica assume la funzione di infondere il senso dell’unità delle voci contrarie, di una concordia discordante, o di una discordia concordante, come nelle cosmologie rinascimentali. In lui, la musica ante rem: come ha piú volte dichiarato, è da una «ossessione mentale di tipo musicale» che le parole prendono corpo come in una partitura. La ragione è sottoposta alla musica, ogni a capo in poesia risponde a un’esigenza musicale. La musicalità è piú normativa della grammaticalità, assolvendo quest’ultima a una funzione unicamente strumentale. Ma la parola possiede una virtú che la musica non ha, in quanto sperimenta la fissione tra immagine acustica e concetto.
     Alla visione del mondo di Ruffilli sottende una solida base filosofica, particolarmente attiva in questa – come scritto in quarta – «serrata rappresentazione (ed analisi) sulla razionalità della natura e sulla naturalezza della storia» che è Natura morta. Una prospettiva inflessibile, per quanto versata nello sgretolamento di un verso volutamente discontinuo e brevilineo che descrive nella sua ipotesi di poetica, una versificazione per frammenti, per stralci lirici discriminati quale mimesi o comunque semiotica dell’incespicare e della pronuncia esitante dell’io (ancora, ‘barlume’, lume balbettante) nella disgregazione pulviscolare della modernità. In tutti i codici estetici, il frammento è stigma-emblema, tratto peculiare dell’età in cui viviamo, non esperta della totalità ma degli elementi labili. Ruffilli scrive: «una frantumazione è anche corrispondente a una mancanza di continuità temporale e modifica l’esperienza della memoria, perché il passato non è piú un’entità astratta fuori di noi, alle nostre spalle, il passato siamo noi e dunque il tempo verbale per significarlo non è piú l’imperfetto, ma il presente». Da un lato Ruffilli vive l’età del dimidiamento dell’io, della sua «andatura intermittente» e della dispersione delle sue qualità spirituali, dall’altro aspira alla ricomposizione della frammentarietà in un quadro piú vasto, in un organismo ricostruito a partire dalla numerosità dei suoi brani. Una sorta di opus tessellatum per una riorganizzazione semantica del soggetto e della realtà.
     E ancora negli Appunti per una ipotesi di poetica concepisce la memoria unicamente come fonte di conoscenza. A un certo punto fa un’affermazione sconcertante, almeno per me: «Non mi volto indietro a riconsiderare con nostalgia quello che non c’è piú». Ciò giustifica sia la memoria come incremento di acquisizioni, sia il fatto che non si possa avere nostalgia per ciò che costantemente si ricrea, non c’è cosa che non sia piú. Implicati in questa tensione conoscitiva, tempo e memoria cospirano contro l’elegiaco, contro il nostalgico. Come in Proust, il tempo passato non è una faglia che ci depaupera, in quanto in noi incorporato. «L’indistinto e il confuso // contengono l’ordine / dell’intera loro somma». La memoria è «in essere, cioè come realtà presente, insieme diacronica e sincronica», e ci dice che «siamo quello che siamo stati e che sono stati altri prima di noi» – e torna di nuovo in mente L’isola e il sogno. Se la prospettiva del frammento implica una intermittenza, forte in Ruffilli è l’istanza della continuità, reificata ad esempio anche attraverso l’iterazione di quelle parti versificate ritornanti in opere successive: strofe che incorporano tratti particolari, privilegiati o meno, che costituiscono o hanno costituito una identità individuale. Inoltre, questa iterazione-migrazione imita il dinamismo dell’esistente nel suo divenire altro. Anche il nome cambia di contesto e muta di funzione per esaudire una ricerca interminabile.
     Come detto sopra, la vera realtà per Ruffilli è quella immaginata, quella al di là del visibile, da cui si faccia preliminarmente astrazione per cogliere e restituire, osservava Mengaldo, «le essenze e i destini dei fenomeni»: «quello stato eterno / dentro la vita / disperso e frantumato / dalla vista». Perché ciò che chiamiamo ‘realtà’ non è che un equivoco dei sensi, una nostra alterazione, essendo essa intrinsecamente opaca e inscrutabile nella sua ermeticità alla ragione. Reali, e come tali abilitate a partecipare dell’arte, sono le connessioni di un pensiero immaginoso. In questa misura anche scrivere equivale a varcare ogni ambiguità tramite l’immaginazione, un allontanarsi dalla realtà pur restando concrete le ragioni dell’espressione scritturale. La parola per Ruffilli trattiene piú essenza, piú espressività della realtà stessa. E la realtà, quella realtà di cui il nome si fa carico di esprimere? In questa concezione della superiorità della parola non c’è ovviamente alcuno spregio per ciò che è reale, o uno svilimento di ciò che è reale in favore dell’irrealtà o dell’idealizzato. Del resto, in un dialogo incluso in Pentacordo per Paolo Ruffilli egli stesso ha dichiarato che nella sua esperienza «niente in realtà è astratto. Il mio modo di essere è quello che gli inglesi definiscono ‘in touch’, a contatto. Ed ecco come la realtà attraverso il tatto si materializza nel pensiero. Perciò per me non importa che si tratti d’amore o di tempo o di vuoto o di qualsiasi altra cosa: tutto ciò che tocco è la materia del pensiero. Ecco realizzata l’intima correlazione dell’apparentemente incoerente». Non c’è estetismo in Ruffilli, solo fiducia nel nome rivelatore-delatore dell’imprendibile senso delle cose.
     Secondo Ruffilli «gli oggetti contano come specchi della mente». La misura umana è l’astrazione. La riduzione a res ficta ha da sempre permesso all’uomo di padroneggiare una natura arcana e non docile. Quindi l’uomo è (ed è da sempre stato) istintivamente intellettuale perché «si sforza a ridurre a processo mentale la realtà per conoscerla e dominarla». «L’uomo è nato simbolista», ha detto Ruffilli, che è come dire che è l’unico essere vivente che va contro natura. Questo avviene inintenzionalmente. Per l’uomo la realtà o l’apparenza rimandano a qualcos’altro, e sono questi «rimbalzi di significato», secondo il linguaggio di Ruffilli, che danno l’input alla elaborazione linguistica. È prerogativa del cervello umano cercare sempre nuove strategie per gestire il cambiamento delle cose.
     Ma qual è la «regola del mondo?». La quiete, si dice in Natura morta. Per molti è la non-contraddizione. Ma il principio di non-contraddizione è un sogno e va decostruito: se valido riferito ai concetti, è fallibile quando esteso alle cose del mondo. Ruffilli insomma non insegue una verità logica o una sintesi superiore. La sua poetica dell’immaginazione del resto comporta l’immersione nel magma del contraddittorio, pre-logico o post-logico, non tuttavia per uscirne con una versione coerente, e semplicemente perché questa versione non c’è, la natura eccede tutto ciò che sembrerebbe dogmaticamente fissato dalla logica della ragione assoluta. Di qui la «necessità del paradosso» che scalza le categorie. La molteplicità, la variegatezza, la contraddittorietà della realtà, l’enigma che vi si avverte, vacuum presupposto di plenum, calco premessa della forma, morte presupposto di un’altra nascita, la vita che prosegue solo in virtú di una morte: tutti questi motivi non possono essere giustificati logicamente con una parametrazione categoriale, o inquadrati concettualmente. Solo un «paradosso ambivalente», un processo di antonimia, un doppio sguardo, oppure un ossimoro esteso o una contraddittoria simultaneità possono rendere ragione del carattere discordante del mondo, esprimere la tensione polare, la coincidenza degli opposti, l’«immaginosa verità».
     Il genere pittorico della natura morta nasce come forma di libertà rispetto ad altri soggetti figurativi, e la libertà riconduce alla vita e alla scelta. La libertà è una delle istanze primarie di Ruffilli: se l’uomo è condizionato dall’ordine necessario che vige in natura, non gli è con questo preclusa la possibilità di decidere. Ancora dal Pentacordo: «Lo stato delle cose è uno stato oscuro e fluttuante, dove l’individuo ha una parte attiva inevitabile. Non si spiegherebbe altrimenti, fin dalla sua comparsa sulla terra, l’istinto dell’uomo all’artificio, cioè l’istinto a impadronirsi della realtà, in tutti i modi e con tutte le conseguenze anche negative. L’individuo ha piú scelta di quanto non appaia a prima vista… Vuole sapere se credo nel libero arbitrio? Sí, nonostante tutti i condizionamenti e tutte le costrizioni. Ed è da sempre che l’uomo, forzando la situazione, esercita la facoltà di decidere, magari sbagliando e perfino a suo danno. Da un certo momento in poi, l’uomo ha cominciato a interrogarsi sul suo rapporto con lo stato delle cose e a darsi delle possibili risposte. Ai due estremi, troviamo da una parte la convinzione che la realtà sia pura apparenza rispetto alla quale si sia chiamati ad esercitarsi come in una dolorosa palestra, dall’altra la convinzione che la realtà sia il prodotto del puro caso. Sia gli uni che gli altri, comunque, non sembrano affatto rinunciare al margine di scelta…».
     «Di quanta morte / necessita la vita / per fiorire?». Prendiamo una natura morta, di per sé contestualmente sede di laude dell’esistente (e talora, in assetti trionfali o sfarzosi, manifestazione della vanitas, o al contrario della vanità dei sensi allusa da alcuni oggetti-emblema) e rappresentazione della labilità: la luce – o un bagliore, oppure una spartizione di luce e ombre crepuscolari – invade oggetti preventivamente svincolati dal loro contesto di origine, enfatizza il loro lato di mistero e, con Mallarmé, i loro reflets réciproques. Restituisce loro tutte le parvenze e le qualità non accidentali che avevano prima di entrare in posa insieme ad oggetti estranei, prima di avere, con il loro cambiamento di stato, in qualche modo alterato la struttura del mondo. Il convegno degli oggetti (oggetti incorruttibili, o prodotti della natura, o manufatti: il tratto che li accomuna è una sorta di solidarietà) è con il silenzio, con il congelamento nell’ombra, con la fissità, con altre forme inanimate, silenti testimoni della metamorfosi. Ma non è un convegno con la morte e il compianto. Quale criterio avrà seguito l’artista nel prelievo degli oggetti? Perché anche quando gli oggetti paiono negligentemente distribuiti, nella natura morta – come soprattutto in natura – nulla è casuale, esiste una necessità interna, e il caso è solo «un nome / della necessità».             
     La natura morta è un appuntamento con la discordanza, condizione dello svelamento dei contrari, come «gioia» e «lutto» – apparente contraddizione nei termini – nel libro omonimo, fino al punto che Mengaldo suggerí in prefazione di leggere il primo degli elementi della diade «non solo secondo, ma terminale». Ciò per via del rinnovarsi della vita, ed è quindi su life, piuttosto che su still, sull’inanimato o sulla immobilità o sullo stato agonico, che Ruffilli ha sempre posto l’accento: «Vita vivente / distesa nel mistero…». Che poi è anche la sorte dell’uomo, uguale e diverso rispetto alle altre forme viventi. Come scriveva Michel Butor a proposito del Canestro di frutta di Caravaggio nell’Ambrosiana, «dal contatto della luce e dei vegetali si sprigiona un dramma ‘dello stesso ordine’ di quello delle grandi composizioni sacre» (tr. it. di M. Porfido).
     Non sul senza-tempo, né sulla propaggine estrema della vita, né tanto meno su esiti di corruzione, ma sulla vita che risorge dall’apparente dissolvimento. «Ma la natura morta / non è senza vita: // tutto si trasforma / senza cessare di essere». Il principio della contraddizione ratifica l’essere intrinsecamente coerente del radicalmente eterogeneo: e ciò costituisce – Ruffilli ha asserito – «il vero mistero della vita e della morte, il mistero dei misteri; la vita che germoglia dal niente e dal vuoto», la vita che perpetuamente modula e si modula. Rimane il mistero, la permanenza nell’incoerenza, resta il diaframma anche quotidiano nel quale «lo sguardo umano» si infrange: «Sicuri dell’effetto / che non cadrà il muro / tra il cercatore  / e il suo desiderato / né tra l’amante e / l’oggetto del suo amore».

ELISABETTA BRIZIO «Lotta di Classico», maggio 2017


La poesia di Paolo Ruffilli
Ai suoi esordi, nei primi anni Settanta, la poesia di Paolo Ruffilli si disponeva lungo un asse che, pur partendo da eventi storici riconoscibili (per esempio i conflitti del periodo della guerra fredda), conduceva verso territori quasi ermetico-surrealistici (“scoppia / in stormi di anitre / la notte decapitata”: La quercia delle gazze, Forum 1972). Per vari anni questa cifra sembra l’unica adatta a difendere un’idea di poesia lontana dalle neoavanguardie eppure fortemente intrisa di sperimentalismo linguistico: già si distinguono i tratti che portano Ruffilli a trovare in un ritmo binario e fisiologico, sulla scorta di Benveniste e di Barthes, la catena continua di sistole e diastole che dà origine al suo dettato. È un ritmo a priori, così come prima di tutto mentale è il suo percorso di avvicinamento alla realtà: nel tempo, cambiano fortemente i nuclei di interesse, ma resta ferma la modalità conoscitiva.
Una svolta importante è rappresentata da Piccola colazione (Garzanti 1987), che infatti raccoglie poesie di oltre un decennio (1974-1986). Qui gli interrogativi esistenziali non esplodono più in immagini ardite e urticanti, ma vengono trattenuti nel perimetro dell’intangibilità dovuta alla scissione parole/cose: è lo stupore sul niente che deve essere detto, è la contraddizione della lingua che dà parvenza e addirittura sessualità alle cose eppure non le avvicina. E intanto però la poesia deve registrare gli scacchi di un adolescente che cresce nella sua famiglia e con gli amici, di cui vengono riportati le voci, e crea alcuni suoi fantasmi forti, alcune ossessioni (“Ne ha uccisi tanti / col pensiero”), e soprattutto aspetta di uscire da una condizione bloccata (“fermo, sotto cristallo, nudo / cova l’attesa”) per avvicinarsi a una pienezza e a una purezza solo enunciate ma irrealizzabili nella vita concreta. Su questa strada proseguiranno Diario di Normandia (Amadeus 1990) e Camera oscura (Garzanti 1992), dove è ancora fondamentale la presenza di Barthes e in specie del suo punctum per ipotizzare che una fotografia riesca a rendere materia notabile la fugacità del vivere.
Ruffilli ha ormai raggiunto una piena maturità, riconosciuta dai numerosi premi ottenuti (dall’American Poetry Prize al Montale al Dessì, seguiti da molti altri), e tuttavia non vuole rinchiudersi in una maniera facile. Passano così vari anni prima che, nel 2001, esca La gioia e il lutto (Marsilio), con un’importante prefazione di Pier Vincenzo Mengaldo. Qui si concretizza una vocazione teatrale, che fa di questo poemetto una meditazione sulla vita e sulla morte in forma di passio, di polifonica compassione di vari personaggi (una madre, un padre, amici o amanti) intorno a un giovane morente per Aids. Nei consueti ritmi binari e fortemente assonanzati si estrinsecano temi forti, come quello delle metamorfosi della forza vitale, “un bene penetrato / nell’imo del più fondo / attecchito nei vuoti / più remoti, / dove resta / contro ogni furto e errore / la vita abbarbicata”. La riflessione sulla morte giunge a toccare ambiti spirituali, di una religiosità orientale (Ruffilli è ottimo conoscitore e anche traduttore di testi confuciani o buddisti) che si potrebbe definire tout court senso del limite terreno e delle possibili speranze. Il successivo Le stanze del cielo (Marsilio 2008), claustrofobico per la tematica (la dipendenza dalle droghe, tra prigionia reale e psicologica), si apre comunque a una dimensione narrativa, dove “l’ossessione per la perdita della libertà”  (così Alfredo Giuliani nella sua prefazione) conduce a un percorso dentro il male subito, che addirittura ci priva di qualsiasi coordinata vitale: “Solo chi sta / nel cuore dell’inferno / sa cosa sia / l’eternità presente, / dannato nell’oscurità / più fonda, / un guanto rovesciato / nel suo interno”.
Nel corso del Duemila, Ruffilli, oltre a rinforzare la sua vocazione saggistica (Nievo, Goldoni, Leopardi…) e quella narrativa (dal volume, importante e rivelatore, Preparativi per la partenza, Marsilio 2003,sino a L’isola e il sogno, Fazi 2011), ha virato verso una lirica che da un lato s’incarica di connettere ancora più fortemente le parole e le condizioni della vita, a cominciare dall’amore, interpretato in senso fisico-mentale e decisamente antistilnovistico in Affari di cuore (Einaudi 2011); dall’altro si attrezza per una disamina puramente filosofico-spirituale, partendo da posologie e addirittura consigli per la salute per arrivare ad astrazioni degne di poeti cinesi e giapponesi, come nelle recentissime raccolte Natura morta e Variazioni sul tema (entrambe uscite per Aragno, 2012 e 2014). Negli Affari, tonalità degne di Catullo si sposano con altre che rimandano a John Donne (“Adesso dormo / tutto il giorno / e cerco di sognarti: / è il modo / che mi resta / per trovarti / dentro me stesso / e farti mia”). Nelle altre due, dove fra l’altro troviamo anche alcuni notevoli Appunti per un’ipotesi di poetica, la vocazione allo scavo dietro le apparenze intercetta persino la densità delle parole: “Ha filamenti lunghi / la parola, / radiche e barbe nere / che pescano / nell’utero del tempo / tra le melme / di quel limo viscerale / che ha dato / soffio e corpo musicale / alle cose sconosciute”. Il lato esistenziale e quello spirituale della lirica di Ruffilli si legano insomma in una dimensione nel contempo biologica e filosofica, e la pagina rivela la voce di un personaggio-poeta che, continuando a sentire la sua incompiutezza, è sempre pronto ad accettare il vuoto (nel senso positivo indicato dai bonzi) per arrivare ai confini del proprio io.

ALBERTO CASADEI Motivazione per il premio "Carducci" 2015 Pietrasanta

 

LA CONFIDENZA DEGLI OPPOSTI
La voce poetante di Paolo Ruffilli potremmo idealmente scinderla e misurarla attraverso due ideali
assi cartesiani: quello della sonorità (o della risonanza) e quello della perspicuità (o della tensione al senso).
Se un qualunque straniero lettore, ignaro della lingua italiana, recitasse in viva voce un testo di Ruffilli, nulla comprendendone, sarebbe tuttavia sedotto dalle cadenze, dal ritmo e dalle calcolate euritmie o poliritmie, da quell’intessuto musicale precordiale che già di per sé si fa "aura" poetica, percettivo teatro di native emozioni da cui nasce (di per sé poetico) il desiderio verso un decifrabile mistero.
Il lettore che invece padroneggi la lingua si trova coinvolto in un piacevole gioco di specchi, in cui il senso compiuto invoglia a quanto v’è di argutamente e allusivamente incompiuto e rimanda ad un infinito, tornandone come da una avventura, donde ripartire nello spirito d’una sorta di interiore odissea.
Paolo Ruffilli è un poeta ancora relativamente "giovane" (si possono compiere, "in exteriore homine", grandi gesta a meno di trent’anni, ma la poesia richiede assai più lunghi tempi di distillazione interiore): nondimeno egli è già un "classico" della poesia contemporanea, per la pregnante e immanente persistenza semantica di originali stilemi già metabolizzati da un folto pubblico di lettori ed amatori, pur essendo la sua poetica (tutt’altro che cristallizzata) un "flumen" ancora vivo, aperto ed "in fieri" nella seducente progressione intuitiva ed elaborativa del sentire e del dire (o del saper dire, se vogliamo riproporre la dicotomia crociana fra intuizione ed espressione)
Non sono pochissimi gli autori della generazione di Ruffilli cui sia stata attribuita la "laurea" poetica, magari però riconosciuta e riconoscibile non oltre il settoriale circuito "di nicchia" nel quale la poesia italiana contemporanea sembra oggi ristretta; la "differenza" di Ruffilli (come di pochi altri) sta nel fatto di essere una voce esondante dalla nicchia, si va in libreria, lo si sfoglia e si è invogliati alla lettura ed all’acquisto, come un tempo (un tempo, sì) avveniva per i poeti amati e recitati a memoria (l’apprendere a memoria si dice in francese "apprendre par coeur", il che è tutto dire).
Mi riferisco qui a una sua selezione di liriche inedite, principalmente amorose, apparse nella rivista "Smerilliana". Non si tratta di un "opus clausum", pur essendo palese, fra i vari brani, la tessitura di un discorso unitario nel ritmo dell’apparente monologo defluente al dialogo con un Sé incorporante l’Altro: si tratta di "fragmenta", di momenti di intensa illuminazione emozionale che affiorano in passione, si inabissano nel profondo memoriale e riaffiorano in soavità di coscienza, consumandosi nella "durata" di un presente ambiguo e multivalente fra "ludus" e "pathos"; momenti d’amore come isole od atolli che pian piano, traducendosi la tensione percettiva nel "continuum" di un discorso meditativo, si compongono nel disteso arcipelago di una sofferta maturità del sentire amoroso.
Il "continuum" di cui dicevamo possiamo esemplificarlo attraverso un forse arbitrario assemblaggio fra segmenti dei vari brani, segmenti scelti quasi a caso, che tuttavia, nel loro naturale comporsi in armonia, dimostrano quale sia la musicale e "risonante" coerenza delle parti - dei frammenti - rispetto al tutto:
- "morderti e masticarti/ aperta e sciolta/ in tutte le tue parti/ per ritrovarti/ poi nella persona/ è stato questo/ il sogno che più/ non mi abbandona" - "ma/ annulla la finzione/ e il sogno/ di unione più totale/ proprio l’oggetto duro che intanto/ sale nel mezzo/ di noi due/ e che si oppone/ corpo estraneo/ alla sua stessa affermazione" - "ridendo per l’intesa/ e riuscirò/ persino sul fantasma/ a fare presa" - "e nell’averti in te/ è il ritrovarmi/ intero/ al centro/ senza che mi costi/ nella coincidenza degli opposti"-
La coincidenza degli opposti cui come sopra ci invita l’Autore è forse ancor più una "confidenza" degli opposti, come in La gioa e il lutto (per citare il titolo della più recente, assai bella pubblicazione di Ruffilli), ove anche la morte sembra confidenzialmente persuadersi alla invincibile tenerezza di una nirvanica "humanitas", alla forza di soavità del - "fiume di energia/ che spande e che riversa/ oltre le porte/ l’eterno nel presente/ …" -

ALESSANDRO CENTINARO in "Smerilliana", n. 2, 2003

QUANDO I VERSI SONO CRUDELI COME L’AMORE
La poesia, anche nell’inferno storico e ideologico del secolo scorso, ha sempre parlato d’amore. Ed è attraverso il tema dell’amore che si è compiuto il miracolo: poeti che si erano compromessi con lodi di Stalin e del comunismo nel suo volto più truce sono stati grandissimi quando hanno affrontato questo sentimento capitale nella storia di ogni essere umano. Penso ad Aragon, a Eluard, a Nazim Hikmet, allo stesso Neruda. Ma a causa forse di una qualche autocensura, in Italia oggi il tema dell’amore-passione o il tema dell’amore inteso come sesso ed erotismo è poco frequentato. Ci sono eccezioni, Patrizia Valduga, Valentino Zeichen, Tomaso Kemeny, diversissimi tra loro ma autori di versi ispirati all’eros. E da ora, con questo suo Affari di cuore, Paolo Ruffilli.

Sorprendendo i lettori, Ruffilli affronta l’eros da un punto di vista violento ma non cupo, duro ma insieme cantabile, crudele e arioso a un tempo. Il verso è quello breve, alla Pindemonte, non raro nella tradizione veneta. Un verso che racconta cantando, attraverso ariette come in un’opera tragicomica, e mettendo in scena tutti i fantasmi mentali e carnali di una esperienza amorosa. Ci sono echi di Ovidio, il gran maestro di chiunque concepisce l’amore come un campo di battaglia. Per Ruffilli «Il letto per l’amore / è un campo di battaglia / del mistero». Ogni amante è un soldato, ogni storia di cuore è anche una lotta senza quartiere. Il letto ispira belle immagini, come quella dei segni lasciati dall’amante sulle lenzuola, specie di profana ma non blasfema sindone. C’è il coraggio di parlare di follia, di violenza, di parossismo del desiderio: tutto l’armamentario dell’eros. Non c’è mai invece l’affondo nel linguaggio concreto, gergale, alla Giorgio Baffo, il grande poeta «pornografico» della Venezia settecentesca. Ci sono spesso rime inattese, in s’ molto belle: come quella tra «divina» e «carneficina», tra «schiena» e «iena». Una sostanza musicale molto ben congegnata, melodica, anch’essa rara in una poesia atonale come è diventata mediamente quella italiana oggi. Gli effetti dell’eros, carnali e tormentosi, sono resi molto bene, in un continuo sprofondare di corpi nei corpi, di bocche nelle bocche, con qualche tocco di feticismo verosimile per chi conosce la follia d’amore.

Ma nel libro c’è anche una storia che direi più psicologica, l’eterna storia del tradimento, dell’amore proibito, delle attese frustrate, dei mariti ingombranti, e che è più convenzionale. Con un ritratto agrodolce di donna in carriera, seducente ed egoista, che però rimane in secondo piano rispetto alla descrizione del fuoco di contraddizioni e di estasi che consuma l’autore, preso da un eros cannibalico e furioso, antico e contemporaneo.

GIUSEPPE CONTE in Il Giornale 23.4.2012


TELL IN LINES
Exspation is the true figure of Paolo Ruffilli’s poetry. A provision to the story, blocked and made intermittent in the phrasing of the lines. Disposal to telling which, lyrically, is noted in a rhythmic continuum with an unmistakable delicate and incisive music, fresh and spring. An existential tell in lines, not a story taken from the outside, but projected outside itself, a mental history. That kind of tell whose thread has the trend of intelligence and, together, the intermittency of the unconscious. Because the word, which moves according to a specific and tidy purpose, then ends up bring along other words, leading the discourse, but also indulging in a flow which is the flowing of many fragments and pieces: quotations, of themselves and of other situations, to which continually imposes itself a small but steady deviation. So that the motion of Ruffilli’s poetry, from a poem to another and from one section to another, in the continuity, is a sinuous line in which many beginnings or just resumptions of tell are succeeding one another, are pursueing one another, to put together a whole. And every book, for Ruffilli, is the whole of that civil and human struggle, love and protest, research and sharing, passion and detachment, which are the necessary shares of life

ROBERT CREELEY in “Poetry”, 1985


JOY AND MOURNING
I’ve been giving some thought to Paolo Ruffilli’s Joy and Mourning first published in Italian in 2001 and in translation by Dedalus in 2004. It’s a beautiful homage to life and death, centred around the suffering of a young man dying from AIDS. It hooks you with an opening inscription, which you soon learn is not a statement of pessimism, despair, or negativity, but a truth born out of experiencing and witnessing suffering.

”The truth is
whether in being born or dying
deep down there is not”
my daughter said
weeping,
”any respect for the dignity of life
in this world.”


Having lifted the curtain by confronting us with this fact, the poem takes us through the socially hidden suffering and death of the young man, and onto the various thoughts of those who witness him die. Their speculations on subjects such as life and death, or being and consciousness, rise silently from the page, as if others are present, and nothing can be voiced aloud. It’s intriguing stuff, and ought to be made into a play: unlike much of Beckett it resist the cheap gag.

There is no lost thought here, nor cold platitudes. Nameless voices speculate about the void, nothingness, and the absolute indifference of nature; and though some even find comfort in this unpleasant death, the possibility of an uncomfortable death for each of them (and the reader), refuses to disappear from the horizon. And yet, somehow, Ruffilli, through this considered meditation, manages to breath a little life into death, to give it face, expression, temperance. Not by illusion, but by stating the facts, as the seem, as they are, as they may well be.

JOHN DEANE Joy and Mourning, 2005

 


ALLE ORIGINI DELLA POESIA DI RUFFILLI, LE PRIME TRE RACCOLTE
Sin dall’inizio Paolo Ruffilli si avvale del magistero ungarettiano. Nella raccolta d’esordio, La quercia delle gazze (Forum, 1972), la scansione a sillabato si affida ad una istanza di emissione fonica, ma mira in più ad un preciso effetto di intensificazione, ottenuto in prima battuta mediante la concisione del verso. Che subito s’acconcia a una misura apertamente narrativa, che in questo caso esprime il mito antico della Grecia ma anche la sua caduta e sudditanza nel tempo ed oscuro dei fascismi. In qualche lirica le corte segmentazioni del verso puntano alla densità delle immagini ("Di me/ non rendo/ testimonianze/ per battaglie irriducibili/ dell’intelletto": La tavoletta del testimone), ma in generale non si ha contentatura tra l’addobbo mutuato dalla tradizione e il tratteggio originale.

Non soltanto la forma, ma insieme la visione mitica (sentita per spinta razionale) si rifiuta di piegarsi alla astrattezza dell’immagine per involgersi nella sveltezza e leggiadria del movimento locutorio. Lo "stile del dipylon" (che reca appunto il titolo al componimento in questione) non si addice del resto al nostro, per la sua rigidità e il senso d’assoluto. E nemmeno – si potrebbe legittimamente aggiungere – gli si confanno i vezzi modulari dell’ungarettismo.

La conferma di una radicale estraneità alla temperie ermetizzante viene dal libro successivo, Quattro quarti di luna (Forum, 1973), che incorda l’espressione – e la vanità del leggersi, dello specchiarsi nel testo – in un dettato generazionale che fa completamentare l’elegismo ampio e sontuoso di marca (latamente) pasoliniana alle modalità della poesia civile europea, da Bertolt Brecht a Ghiannis Ritsos, destinatario della prima delle liriche, "La libreria del cedro".

Il contesto è quello politico-polemico del dopo ’68: ma con una venatura in negativo, un dire con dolore e risentimento ciò che non si è, né mai si potrà pur essere. Montale balugina sul controluce di una intramatura che indaga le poetiche e ricerca la giunzione tra vita e letteratura. Una eco che, più avanti nel tempo, si declinerà in Ruffilli nell’elencazione delle cose che la scrittura incontra e seleziona: i lacci per le scarpe; il cinturone per l’ernia; la pila con riserve di carica; una pomata ("Il comodino del nonno" in Notizie dalle Esperidi, Forum, 1976). Ma, ancora, i bersagli sono gli "ermetismi storpiati d’avanguardia" e una anacronistica "aristocrazia" di belle lettere. L’impostazione è nullameno manieristica, pur nel rigetto dell’edonismo o almeno del solo orizzonte letterario. Ne diviene conferma quell’intarsiatura di stili, che svariano dai testi cosiddetti di locuzione alla prima parte di Quattro quarti di luna agli altri più duri e articolati e politici della sezione finale, sino a quella suite, avente a titolo "Verificato per censura", che sull’onda di lettere in versi tratta la materia tragica del campo di concentramento. L’escamotage del ritrovamento di fogli e carte (che ritorna come modo significante anche in Camera oscura), consente un affondo nella storia più controversa e lancinante evidenziando al contempo la sfiducia nel presente. "Ho dichiarato il fallimento", sigla apodittica la poesia dell’explicit, "Le stagioni frantumate". Così in conclusione, il ventilato confliggere tra Storia e Letteratura, già segnalato da Giuliano Gramigna, finisce per affermarsi. Con la Parola che ha difficoltà a dire quel che il reale secerne entro di sé; e spiega questa impossibilità tramite l’alienazione e il prevalere di tempi degradati e drammatici.

In quest’ottica, Notizie dalle Esperidi prospetta un’ipotesi di esistenza soggettiva, quale terreno di passaggio tra ieri e oggi, non soltanto adottando una traccia di racconto plausibile, almeno nell’ottica di un ritorno dal passato, ma anche infine enucleando nella scrittura quel compromesso di parole solo vissuto e mai accettato e tradotto in pratica. In questa terza raccolta la versificazione si alleggerisce: diviene più immediata e fluente schierandosi all’inseguimento di una lingua diretta e semplice che fissi ancora una via strategica per la comunicazione poetica. Dopo le grandi speranze e le utopie, sopravviene il grigiore, la penombra incerta: il comodino del nonno della succitata lirica delle Notizie mette in mostra anche un pappagallo in vetro, e poi un bel tris di sveglie, e santini in plastica della Madonna. I piccoli momenti di medio gusto della quotidianità, dal vario bricolage casalingo alla tetraggine e pedanteria professionale, scorrono innanzi al lettore. Il racconto in versi prende a sarchiare anche la morte ed il caos, in una sorta di rinnovata quadreria alla Spoon River, poi declina verso una tonalità tra introversa e sardonica, tra ragionante e rassegnata. La generale e dilatata degenerescenza della realtà produce una variante gozzaniana che però affonda le radici nel nostro secolo exeunte – come poi verrà chiaramente esplicitato nelle due ultime raccolte, Piccola colazione del 1987 e Camera oscura del 1992, entrambe impresse da Garzanti. E qui, per tornare all’asserzione dell’avvio, cade ad hoc un rilievo di Vittorio Sereni: quando osservava come il verso ungarettiano di Ruffilli consistesse soprattutto nella commettitura tra l’atto del cercare e la concreta rielaborazione.

Onde quel protendere al minimo accadimento e segno, che dalla vita sgocciolino sopra il diario in versi, e quella breve rapida scansione tra l’un soffio e il successivo, che fa infine propria la "perplessità del distacco".

GUALTIERO DE SANTI in "I Quaderni del Battello Ebbro", n. 22, giugno 1999

 



VENA LIRICA ED ENERGIA CIVILE
Ad occuparsi, in poesia, di carcere e carcerati non sono in molti e, da noi in Italia, nessuno prima e con la forza espressiva di Paolo Ruffilli nel libro Le stanze del cielo.
Ruffilli è un poeta di profonda liricità, ma ha sempre anche una sua vena civile, che gli risulta costituzionalmente irrinunciabile, nella sua pur spiccata individualità, come specchio del vivere in un paese e in una società.
Le stanze del cielo parlano così di un problema sociale, ma è l’io che riflettendo si interroga liricamente su una condizione drammatica come quella carceraria italiana, sotto gli occhi di tutti perché disattende, con responsabilità politiche evidenti, le più elementari regole di civiltà violando i diritti dell’uomo.
Non è un caso che Le stanze del cielo abbiano ottenuto il premio di poesia civile più importante in Italia, a Modena, della cui giuria fa parte anche mia moglie Franca. E, del libro di Ruffilli, abbiamo parlato insieme quando lei collaborava alla stesura della motivazione.
È sembrato a entrambi che la freschezza di immagini e di situazioni giocasse un ruolo decisivo nella rappresentazione lirica di una condizione che, se è esperienza di vita del carcerato, non lo è nella quotidianità di Ruffilli. Ma c’è qui da prendere atto, come si diceva con Franca, che le antenne del poeta sono talmente sensibili da rappresentare dal di dentro il groviglio di sentimenti e di emozioni, di bene e di male, di colpa e di rimorso, di speranza e di disperazione, di fede e di cinismo, che riempie ogni prigione.
La valenza civile di queste Stanze del cielo è tanto più forte quanto meno se ne preoccupa Ruffilli, che parla con una dolcezza pungente dei carcerati, così come dei tossicodipendenti nella seconda parte del libro, senza fingere che non ci sia il male, ma senza cancellare quei palpiti di bene che ancora sopravvivono in chi ha sbagliato e sbaglia e compie gli atti anche più violenti e ignobili.
Come sia riuscito a Ruffilli di rappresentare nel segno della delicatezza situazioni come quelle che riempiono le pagine del libro, rientra nel mistero sorprendente della poesia oltre che nell’inequivocabile bravura del poeta.

To take care of  prison and prisoners, in poetry, there are no many writers and, in Italy, no one before and with the expressive power of Paolo Ruffilli in Le stanze del cielo (Rooms of the sky).
Ruffilli is a poet of deep lyricism, but always has his own civil vein, which is constitutionally indispensable for him, even in his marked individuality, as a mirror of the mutual life in our country and  society.
Le stanze del cielo talk about a social problem, but there is a reflecting “I” who asks lyrically about a condition as dramatic as the Italian prisons that, under the eyes of all, with obvious political responsibility, disregard the most elementary rules of civility in violation of human rights.
It is not by chance that Le stanze del cielo have obtained the most important Italian prize of civil poetry, in Modena, whose jury is also part my wife Franca. And, about Ruffilli’s book, we talked together when she collaborated in the drafting of motivation.
It seemed to both that the freshness and the sharpness of images and situations play a decisive role in the lyrical representation of a condition that, if is life experience of the prisoner, it is not in Ruffilli’s daily. But we hade to take note: the antennas of the poet are so sensitive as to represent from within the tangle of feelings and emotions, good and evil, guilt and remorse, hope and despair, faith and cynicism, which fills every prison.
The civil importance of these lines is as strong as less Ruffilli cares it. He speaks with a pungent sweetness about the prisoners, as well as about the drug in the second part of the book, without pretending that there is no evil, but without crossing out the good heartbeats that still survive in those who did wrong and made violent and despicable acts.
How Ruffilli was able to represent in the sign of the delicacy situations such as those that fill the pages of the book, is part of the surprising mystery of poetry as well as of the skill of the poet.

DARIO FO RadioRAI 2008

 


IL SACRO E L’INERTE
Nel saggio sulla lingua in generale e sulla lingua degli uomini Walter Banjamin ricorda come ogni manifestazione della vita umana possa essere concepita come una specie di lingua. Stante il carattere originariamente teologico della sua filosofia, o almeno la tensione che per gradi successivi si trasporta nel materialismo, l’essere linguistico si equipara a quello spirituale

Dal divino promana un’illimitata comunicabilità cosmica, che attraversa la creazione e raggiunge l’uomo. Ma se in passato la vita dell’uomo si adagiava beata nel puro spirito linguistico, causa la caduta, il continuum si è cristallizzato nella parola reificata, inutile, riducendosi a chiacchiera (Gewätz).

È una condizione – questa dimidiata e infelice – tipica dell’arte moderna. E codesto pare essere il caso della poesia di Paolo Ruffilli, che già nel titolo dell’ultima raccolta, Piccola colazione (Garzanti 1987), allude intentivamente ad una lingua tutta lardellata di indifferenza, lingua che si mangia – appunto nel frullato del petit déjeuner – e che si lascia mangiare, che si parla e dalla quale si è parlati. Polluzione interminata, che si astrae in inutili nominazioni e rinominazioni, la cui legislazione è l’impassibilità con cui tocca l’importante e l’ascitizio, il sacro e l’inerte, l’ovvietà e l’essenziale, andandosene per dritto e per traverso e ritornandosene grondon grondoni in sbiadita e invadente profusione.

La conoscenza del carattere e del destino dell’essere linguistico, nelle sue determinazioni più o meno precise, esistenziali od ontologiche, è quella che regge o comunque informa la poesia di Ruffilli. Che però si compendia di un dato ulteriore imprescindibile (almeno a nostro avviso): la consapevolezza di non potersi fermare, impiegando il linguaggio poetico, a un informe balbettio.

Ecco allora in epigrafe alla Sezione prima del libro, che reca l’identico titolo della raccolta, appunto «Piccola colazione», l’intuizione di Mishima che se le parole si imprimono sul volto tingendo coi loro colori e le loro figure eleganti, alla fine esse si fisseranno e rimarranno indelebili. Uccideranno le cose – come afferma Lacan, anch’egli nell’occhiello della citazione – però assumendone il carattere simbolico.

Del resto Ruffilli, nella sola lirica che sta nella sezione, potremmo anche dire nella lirica in limine all’intero libro, avverte di una parola che le sopraggiunge da lontano: eccitante e suggestiva; dal fondo capovolta per nascere inter urinas et feces (come con ricordo di Annales gramignani verrà asserito più oltre); capace di raggiungere il senso e poi di sfuggire ai nostri sensi: che ha «l’effetto di essere / lanciata contro un corpo / pronunciato e, nel / suo dirlo, di colpo / riafferrato».

Un segnale insomma plurimo, poliforme, materialmente mutevole: l’assoluta determinatezza di un’ambiguità intrascendibile; l’atomizzazione del senso nulla meno condensata nella roridità e nel fervore metaforico.

Parole che risuonano ossessivamente, «allineate in secca tiritera», velocemente orchestrate nei versi brevi e nei grappoli strofici; tentacolate dal baluginio di realtà che le sovrasta e dalla memoria che sottosta loro; gettate negli spazi della dispersione.

Ma poi anche parole come resistenza al vuoto, desiderio di durata e di spessore; come «trasgressione» – in ordine alla figura tematica che emerge nella terza sezione – al quotidiano scucirsi del senso e del tempo.

«La credenza / e i pensili finto legno / alla parete, nella stretta / cucina. Il lavello / sotto la finestra / e il frigidaire che occupa / un terzo della porta». (« Fu vera gloria? »).

L’universo disposto su assi di pausazione privati del palpito della vivificazione fantastica, intenzionati alla musealità grigia e spenta degli interni, secondo le linee di un crepuscolare iperrealismo (riprendiamo il termine della prefazione di Giuseppe Pontiggia) che non scrosta dalle cose e dai fatti la ruggine del convenzionale, perciò stesso li accumula.

Tali interni possono richiamare all’interiorità e profondità della coscienza, ma la lingua che li nomina non comunica – né del resto lo potrebbe – l’essenza spirituale delle cose. Ma pur manifestando unicamente se stessa, la sua forza impressiva si raggruma di tanto in tanto in soprassalti e squarci esistenziali, che divengono evidenti più avanti, a partire dalla sezione «Per amore o per forza», dove consegnati al corsivo individualizzano almeno a tratti il flusso e il continuum della lingua: ««…sentire di appartenere / a qualcun altro, e che / qualcuno ti appartiene / per sempre, in esclusiva».

Come certo s’è capito, la lingua poetica di Piccola colazione non solo non è affatto la mera lingua della traduzione del magma: non è lingua mediale. Pur eccettuandosi da una diretta comunicazione di forma relativa a un referente esplicito ed essendo invece costruita sull’effetto dilabente delle sequenze fonetico-ritmiche e sulla loro ciclicità, s’accorda a volgersi e a traguardare in profondità: ond’è che l’inedito accostamento ad una visuale interiore – della psiche e della mente – si appunta sulle immagini della casa quale percorso di un destino.

Il movimento che scende giù in verticale, pur lavorando su un costituente neutro, data la deriva in cui si ritrova e si vuole, ha per corrispettivo il dinamismo sull’asse di uno sviluppo contraddistinto dalle diverse sezioni. Rimane affine il prontuario stilistico; muta tuttavia il tono, che giunge in «Prodotti notevoli» ad effetti di eccitata e nervosa sonorità. «Vita vivente stato / patente latente / azione funzione / diaframma del nulla / muscolo diastole. / Vita vagante stato / incitante inibente / azione ragione / nesso catena / muscolo sistole»: giusta il cangiante sommuoversi delle scolastiche liturgie – altri simulacri del vuoto odierno – qui evocate e mimate. Il punto d’approdo è la resa all’evidenza: ma, poi, il vagare alla deriva dell’ultima strofa acclude all’espressione l’insostituibilità dell’esperienza realizzata nel libro. Benjamin avrebbe detto che la lingua delle cose si è in ogni caso tradotta – per il miracolo della poesia – nella lingua degli uomini.

GUALTIERO DE SANTI in "L’ozio,”Anno II, Numero 4, maggio/agosto 1987

 

 



PER PICCOLA COLAZIONE
Fra i poeti che ora raggiungono la piena maturità dei quarant’anni, Paolo Ruffilli occupa un posto a sé, a cui è giunto seguendo un percorso personale  e non necessariamente lineare. Piccola colazione (1987), che vogliamo qui presentare, è il quarto (e riassuntivo) fra i volumi poetici che Ruffilli ha pubblicato lungo tutti gli anni ’80, in cui ha sondato le diverse ipotesi che poteva offrirgli la cultura poetica dell’ultimo decennio, dopo che egli aveva preventivamente consumato dentro di sé le più astrattive ipotesi sperimentali e di neoavanguardia che la poesia aveva praticato soprattutto negli anni ’70, e dopo che la troppo facile e mutevole disponibilità del cosiddetto gusto post-moderno aveva permesso ai poeti di recuperare e consumare, con volubile arbitrio e, in genere, in chiave soprattutto formalistica, i moduli un tempo codificati e celebrati del vecchio Simbolismo, del Novecentismo poetico, e fin quelli dell’Ermetismo e post-Ermetismo.

Ruffilli, diffidando fin dai suoi inizi della ricerca dell’Assoluto lirico, e in cerca di un verbo che, se mai, gli permettesse di esprimere anche il quotidiano e il vissuto della sua esperienza, avrebbe aggirato molto presto le forme della pura lirica e della folgorata visionarietà, per recuperare altri modi, che pure avevano avuto larga cittadinanza nella poesia italiana del secolo. Come quelli del poemetto a suo modo narrativo, di una poesia il cui lirismo lasciava ugualmente coagularsi la matrice prosastica da cui, in altro senso, nasceva il parlato delle molte voci che vi compaiono; i molti strati di un linguaggio più di altri attento al diverso e molteplice manifestarsi dell’umano, anche della vita più corporea e comune. In questo senso, se Ruffilli ha avuto antecedenti nella poesia italiana del Novecento, essi andranno piuttosto cercati in quell’altra faccia antinovecentesca della nostra poesia, che pur altrettanto legittimamente ce la rappresenta nell’opera ormai classica di un Gozzano o dei Crepuscolari, di Saba e, più vicino a noi, nei più ampi componimenti narrativi dei poeti che si raccolsero attorno alla rivista «Officina», o nelle circa coeve, e anche successive, ricerche di un Giudici o di un Pagliarani. Riteniamo così di aver situato l’esperienza di Ruffilli, e più particolarmente quella dei 6 poemetti che formano Piccola colazione, nel quadro di riferimenti che spettano loro, e che meglio possono permetterci di connotarne il dettato agile e mutevole, la forma facilmente portata alla metonimia e alla sua particolare allusività e ripetitività – come ha fatto utilmente notare l’intelligente prefatore originario di questo libro, Giuseppe Pontiggia – piuttosto che a un lirismo più metaforicamente dispiegato.

Fino dal primo componimento del libro, «Piccola colazione», che gli dà il titolo, si nota la precisa tendenza di chi scrive a distinguere la materia di cui parla dal linguaggio che la esprime o, come direbbero in questo caso i semiologi, il significato della sua poesia dal suo significante: questo in rapporto a una realtà: «…che invece, / più toccata e presa, più / sfuggiva inconsistente / ai cinque sensi…». Come si è detto: non certo manifestando una ricerca dell’Assoluto o dei suoi grandi simboli, ma piuttosto una vivace (e inquieta) messa in rapporto del senso e dell’esperienza col linguaggio che, esprimendoli, li distanzia e anima.

Questo si coglie non più come proposta di poetica, ma già in atto, nel primo poemetto, «Malaria», dove il tema adolescenziale e il quasi morbo dell’erotismo e dell’autoerotismo, trova nella brevità innervata dei versi – più spesso quinari, senari, settenari e rarissimamente più lunghi – e nella loro organizzazione continuamente mutante fra l’enunciato e il parlato di supposti personaggi, il sottoparlato lirico e intemporale del protagonista, o il diverso monologo poetico di chi oggi commenta, una forma dai più toni e registri che funzionerà qui, come in tutti gli altri componimenti del libro. Quello che vale ora per Ruffilli, è l’attualizzazione di un’esperienza anche molto distante in un presente poetico stratificato, che esprimendo, «finge» e racconta, fino a far coagulare la scoppiante o sommesso molteplicità delle sue voci, ora tutte convogliate verso il varco della propria espressività: «…(Scruta, salito / sul bordo della vasca / in bilico, svestito, / indaga sullo specchio / la forma o una ragione / di tanto desiderio.) // pesa il passo e posa piano /lancia il sasso con la mano / ferma adesso e vai lontano // “Mia madre dice che / posso togliermi tutto”. / “La mia, non più dei / pantaloni e della maglia” // (Vedersi, essere / visto. Metterlo a nudo. / Tenerlo, se deve essere tenuto. Ma gli pare / che debba esserci/ qualche altra cosa…)».

Su un tema tipico da romanzo di formazione, Ruffilli qui scompone e ricompone l’esperienza nei suoi molteplici livelli semantici, avendo cura di ridurre al minimo l’autobiografismo, che pure c’è, e riconducendo tutto a una terza persona poetica oggettivamente, che brucia l’ipotesi lirica di un «io» parlante o di un «tu» evocativo, annullandoli per ora nel corso vario e accidentato di un continuo presente. Se una spia c’è sulla traumaticità della tematica qui nonostante tutto adottata, sulla presenza delle voci genitoriali che pur incombono, sull’educazione cattolica comunque onnipresente (…«Intanto, dappertutto / Dio ti vede»…), la si trovi nella molteplicità e contrapposizione delle diverse voci che dicono e non dicono, vogliono e non vogliono trasgredire, che alla fine dovranno infrangere la convenzione, magari solo per trovarne una propria oltre la rottura del nuovo flusso espressivo: «…Da consumarsi in fretta / al buio al chiuso / della stanza, / senza che si veda o / che si senta, di nascosto / di straforo, a danno / di qualcuno, come offesa / rischio e, più, vergogna / violando, meglio che / si possa, la consegna…».

Abbiamo esemplificato più lungamente la «Malaria», perché i diversi livelli della scrittura vi si prospettano ben stratificati e divaricati, e in genere su una scena poetico-narrativa che si proporrà anche altrove. Nel successivo «Fu vera gloria?», essa sarà ancora quella di un interno borghese, colmo di voci e di oggetti, ancora di presenze genitoriali o familiari, di fronte a cui il protagonista si fa anch’egli personaggio parlante. Ma trasgressivo e fin violento, come un adolescente che cerca se stesso nelle penombre: «… “Così, stai ferma. / E’ un attimo soltanto”. / “Mi lasci, su, che fa? / Guardi che grido”. / “Dovresti ringraziarmi / per quello che ti insegno”. / “Oddio. Ma che succede, / se sente la signora…” ». Di fronte a cui solo riscatto è nei futuri sogni di gloria che, appunto, intitolano il poemetto e ne fanno maturare il senso.

In «Per amore o per forza», le precedenti trasgressioni o violazioni si uniformano maggiormente su un fondo di sentimenti, che già si declinano se non reclinano, come in un dettato crepuscolare, fattosi oggi più pragmatico e fattuale, solo indirettamente confessionale: «… “Ti piaccio, allora, io? / Dimmelo ancora” // E pur incerto batte, / fedele le sue rotte. / Incespicando al buio / in mezzo a fumi e nebbie, / senza sapere niente…». Si direbbe che i diversi aspetti del componimento – il parlato sentimentale, anaforico, ripetitivo e fin ossessivo di «lei», e il contrapposto silenzio, egotismo, e quasi ritiro e fuga di «lui» – siano semplicemente speculari in un mondo affollato di gesti, oggetti, di contraddizioni, il cui più profondo vero ancora resiste, e si fa ostacolo non ancora scalfito dalla parola.

Lo stesso vero oscuro e resistente che, in «L’assedio di Costantinopoli», si ambienta invece che in chiusi interni borghesi, nella perenne polvere e oppressività della scuola di ieri (e di oggi), dove lo scrittore ieri allievo e oggi magari docente, registra più livelli di parlato: quello nozionistico degli insegnanti ironizzato e fin sbeffeggiato dal gergo irridente degli allievi, per giunta ora sessantotteschi e contestatori: «…IL POPOLO IN ASCESA, / BASTA CON LA BIBLIOGRAFIA, / OPERAI E STUDENTI, / MORTE AGLI AVARI / MANDARINI DELLA BORGHESIA…». Non sai chi sia più consunto e invecchiato, se il controcanto studentesco appena di ieri, o se la voce professorale senza tempo che parla della battaglia delle Termopili, o della caduta di Costantinopoli che intitola ironicamente il poemetto, o recita i versi immortali del Poeta, qui fuori da ogni loro vero contesto: «…Amore che a nullo / amato amar perdona…/ Ma non dà conto /non appartiene, non / funziona, se non / come rumore / e suono…».

Ancora la scuola, di nuovo discente e docente senza luogo e tempo, è la scena del penultimo poemetto, «Prodotti notevoli», anch’esso punteggiato e quasi traumatizzato dai diversi livelli di soliloquio, del parlato e sottoparlato che connota il libro, in versi fattuali brevi e brevissimi che innervano e tendono la poesia di Ruffilli, fino a tentare il vuoto dell’imminente rottura lirica. E c’è di più, in questo caso, quando dalla giaculatoria dei vecchi formulari scolastici ironizzati fino al loro esaurimento – «…carpo carpsi carptum carpere…» – , delle voci che fuori da tutto ripetono intemporali litanie scolastiche ronzanti infondo all’infanzia di ognuno, a un tratto, dal fondo dei fondi si sprigiona sperimentalmente, inventivamente, il tessuto crepitante della poesia, il suo tutto e nulla di musica, figure e suoni: «…Polvere pulvis polvere, / nembo di polvere. / Polvere su cui tracciare il segno labile. / In solem et pulverem / producere doctrinam. / Polvere ed ombra… ».

Di qui sarà possibile, a chi scrive, pervenire all’invocazione rispettiva delle figure paterna e materna, anch’esse perdute nel fondo dell’infanzia, e tuttavia restituite nel giuoco icastico delle rime alfine riconquistate, da parte del poeta ora non più figlio mentre nomina e invoca: «…Padre potente / arbitrio comando / signore che prende / che regge le fila / che muove e sostiene / domina e licenza. / Padre che è assente / sole lontano…». Ne viene una sorta di recitativo, di litania anaforica e rimata, che si rinnova poco avanti in quella della «Madre matrice», poi «Madre matrigna» e «Madre madrina», a sua volta compendiata e raccolta in quella totalizzante delle «Vita vivente», «Vita vagante» e «Vita fluente», che, più avanti ancora, trova la sua vetta in quello che a noi pare il pieno, libero raggiungimento del libro, nell’: «…Onda che prende / che piomba e dilaga / che versa che fonde / che spande / che dissipa avvolge / congiunge. / Galleggiando, fluttuando…».

Non molto di più Ruffilli ci dirà nell’ultimo poemetto «All’infuori del corpo», in cui sulla base di citazioni mistiche e spiritualistiche da Jonathan Swift e da Teresa di Lisieux qui «in limine», pone l’accento sul possibile svuotamento di un discorso poetico prevalentemente sostantivale, nel chiuso di una vita fattuale o pragmatica, che ora batte sul limite più arduo di una rottura possibile, della ricerca di un suo diverso vero. Ora si prospetterà una ulteriore e nuova distanza, fra il presente e le care presenze e inquietudini del passato che cominciano a sfumare; sul conto della vita che comincia a non tornare, e la voce poetica che aspira a ricatturare fino in fondo figure, voci e tempi. Finché, come nella notissima intuizione proustiana sui campanili di Martinville, la prospettiva poetica si modificherà a seconda della distanza del riguardante. Come in questa poesia quando accettato il movimento nello spazio-tempo, lo scrivente ne assume la mutevolezza, riconquistandone infine il diverso vero, proprio al termine del suo viaggio poematico: «…All’improvviso, –  ne dirà – l’idea / di un vuoto, senza moto, / del nulla, dell’assenza / di un segno o di una traccia, / agghiacciante il sangue e / fa tremare mani e voce. / Nel punto estremo e, / ormai non più lontano: / alla foce del fiume, / a un passo, ad una spanna / dalla frontiera, chi c’è / o cosa…che mi salvi / dal salto, dalla condanna…».

E non per caso è proprio qui, alla fine del libro che, per la prima volta, se non erriamo, dopo tanta pseudo-prosa, e parlato, e dialogato, e terza persona poetica singolare, la poesia di Ruffilli riscopre l’io lirico, la voce unica e naturale, che senza più «finzioni» e protezioni, parla infine in lui e tramite lui. Una voce che adesso potrà anche varcare il confine simbolico che, fin’ora, le aveva impedito di vedere e nominare il luogo del proprio trauma originario, di trasformare l’indistinzione e la molteplicità del proprio narrato poematico, in un diverso e tanto più determinato momento di espressività, di più risonante e durevole musica verbale.

MARCO FORTI in "Il Lettore di Provincia," nr.95, aprile 1996

 


LO STADIO SELVAGGIO DELLA PAROLA
L’orgasmo, ha scritto in tempi andati Ruffilli citando Pascal, è come uno starnuto. Così si era messo senza tergiversazioni dalla parte dell’ironia. E scantonava dal tema erotico con il suo metronomo cantante e irrisorio, distraendosi con gli sfondi e le situazioni di contorno (il cattivo gusto dell’arredamento della camera da letto, la luce fioca e triste di una lampada del comodino, il crepitare del parquet al movimento degli amanti clandestini, l’incepparsi della lampo…) o dissolvendo l’altro in “oggetto delirato” dell’amore, personaggio assente o “figurato”, immaginato come non è.


In Affari di cuore per la prima volta Ruffilli dilata il momento in cui “l’eterna guerra di posizione” degli amanti diventa battaglia aperta: “Sono tornato | per morderti e graffiarti”, “mi ami al punto di ingoiarmi”… a mordere, succhiare e digerire il corpo dell’altra; non tanto il “corpo amato” dell’immaginario, ma un corpo “vero e proprio” fatto di pelle e di carne, di umori e secrezioni. Il tema investe il ritmo di Ruffilli; non i contenuti, perché resiste in realtà l’impianto narrativo delle sue trascorse educazioni sentimentali (“e ti lamenti | … | che ti offro | i frutti della testa | ma che alla fine | non ti dono il cuore”): la totalità è solo “lo stato da me presunto | beato per intero”. Il furore di lei è alla fine ingannevole: “E via, confessa | che nell’amare me | ami te stessa”.


Ma, a stravolgere la musicalità irridente di Piccola colazione, o le folate ritmiche del Diario di Normandia, qui soccorrono la violenza dello scontro suoni più netti e duri (“risputarmi fuori | munto e triturato”, “vuoi che ti prenda | e, più, | che ti violenti”, “siamo squartati | … | e nello squartamento…”), e rime interne e assonanze più aspre e arrotate. è come se l’amore carnale risultasse a Ruffilli incoercibile all’urbanità di sorvegliate filastrocche gonfie di pensiero, ed esplodesse infine una crudezza primitiva, uno stadio selvaggio della parola.


Niente idealizzazioni e niente donne dello schermo: il soggetto ama il suo oggetto e non l’amore (si veda, per l’appunto, la poesia Furore), incontra la sua donna “reale”, con i suoi limiti e i suoi difetti, ben sapendo di averne lui stesso altrettanti. La contraddizione non solo viene accettata, ma è vissuta fino in fondo come risorsa impareggiabile della vita. E l’amore conosce la violenza e la crudeltà, sì, però anche le pieghe più tenere che resistono nello slancio passionale (“Respira piano, | lasciati entrare | poco alla volta | dentro di me…”, “…dentro il sorriso | che il sogno | ti ha lasciato. | è la gioia dell’amante | nell’amato”,“…ma non volevo spegnerlo | beato, restando | a cuocermi nel forno”), fino a registrarne la coscienza: “Non avevo mai provato | in vita mia | così tanta tenerezza | dentro la passione”). In un rispetto dell’altra che resiste anche dentro il riconoscimento dei torti subiti e in un’esperienza dell’amore che ignora finalmente la gelosia.


Nel suo concedersi all’uso della norma, Ruffilli è altamente trasgressivo e riesce a dire, appunto normalmente, le cose più indicibili senza mai sottrarre dignità alle persone (si vedano, ad esempio massimo, poesie come Addosso, Pensiero, Atto estremo, Sorpresa, Istigazione…). Solo le rime con il loro solfeggio leggero tornano a suggerire una possibile, risorgente ironia e la distanza, portata non dalla sazietà, ma dall’implacabile intelletto. Tutto diventa musica e proprio per questo si riesce a pronunciare l’indicibile. Quella lieve musica dal ritmo sincopato, fatta anche o perfino di cocci e vetri rotti.


Nel genere forse più rischioso, letterariamente parlando, Ruffilli vince la sua sfida in virtù di quelle qualità che già gli riconosceva nel 1977 Montale, indicandolo come solitario e originale nel suo percorso sghembo rispetto ai poeti del nostro Novecento, all’insegna del non dire proprio per esprimere di più: “Il modo di Ruffilli si affida a una specie di galleggiamento di vescicole, piccole bolle che guadagnano la superficie salendo in verticale su dal fondo. E queste bolle, nel loro minimo ingombro, nella loro rarefatta consistenza, riescono a rispecchiare la realtà nella sua interezza e complessità.” Frammenti di un insieme alluso e poi, in virtù della poesia, di colpo ricomposto in tutta la nettezza della sua sorprendente rivelazione, per immagini capaci di rendere il discorso dell’amore non solo possibile, ma straordinariamente nuovo e vincente anche in letteratura.

DARIA GALATERIA in "l’Immaginazione”, n. 270, luglio-agosto 2012"


LA POESIA DELLA CONOSCENZA
Le stanze del cielo di Paolo Ruffilli, uscito nel 2008 per l’editore Marsilio, con la prefazione autorevole di Alfredo Giuliani, conferma la disponibilità etica e in senso lato civile del poeta di Treviso. «A Ruffilli poeta», è lo stesso Giuliani a sottolinearlo, «interessano tutti gli aspetti della vita e in particolare quelli segnati dalla sofferenza e dal male (il male fisico e il male di vivere)». Questa primaria, diretta sollecitudine umana consente al poeta di avvicinare tematiche “forti”, di natura insieme esistenziale e storico-sociale, senza incorrere in nessuno schematismo o nella minima predeterminazione ideologica. In particolare, Le stanze del cielo fanno centro sul tema della perdita della libertà e sullo spazio concentrazionario, sia osservato e indagato dall’esterno, nel caso dell’universo del carcere, sia rivissuto da dentro, nel riferimento alla dimensione tragica della tossicodipendenza. E appunto al mondo del carcere e alla tossicodipendenza corrispondono le due parti in cui il libro si divide. Scritto per frammenti e folgorazioni lirico-narrative, sul tempo di un verso molto breve, Le stanze del cielo sono un libro crudo, disadorno, non consolatorio, dove anche i più semplici oggetti e gesti della vita quotidiana rimandano per metonimia a una violenza e a un dolore non circoscrivibili o troppo puntualmente determinabili. Ruffilli è infatti un poeta di pensiero, di fine qualità intellettuale, capace pertanto di trasporre sempre i singoli accadimenti, occasioni e fatti dell’esistenza su di un piano di conoscenza più alto, perfino, come ha scritto Pier Vincenzo Mengaldo, con un’ultima risultanza o ambizione metafisica. è vero allora che Le stanze del cielo, come indicato dalla doppia immagine disegnata dal titolo stesso, tra chiusura (le stanze) e libertà (il cielo), attraversano il male, il dolore, la perdizione, ma sempre nella speranza di un orizzonte diverso, che potrà essere individuale soltanto quando sarà al contempo dagli altri condiviso. Come appunto dicono i versi di chiusura del libro: «Vorrei lasciare / adesso, sì, l’inferno / del tempo mio perduto, / cercare di levarmi / giù dal volo, / ma non riesco / a smettere da solo».

ROBERTO GALAVERNI in "Motivazione del Premio di Poesia San Giuliano Terme 2008"



LA LEGGEREZZA DEL CUORE
In questo intenso, compatto libro non c’è un nome proprio, non uno di luogo, non una descrizione, insomma non un solo dettaglio fisico. Eppure, è un libro di grande concretezza: si parla d’amore in modo preciso e corporeo, scandagliandone sintomi e conseguenze. Paolo Ruffilli affronta la questione amore fra un uomo e una donna da tutte le angolature: l’attrazione fisica, la passione, soprattutto il sentimento che a volte è contrastato, ma sempre appare assoluto, invincibile. Se l’autore sembra non considerare la tradizione dal punto di vista dei modelli tematici più noti, in realtà la attualizza senza clamore, con lievi spostamenti: nella prima parte l’amata è totalmente coinvolta dal sentimento; nella seconda e nella terza è ritrosa, fuggitiva o persino ostile, nell’ultima in primo piano è il ricordo dell’amore ormai finito. Il punto di vista è sempre quello del poeta, proprio come nelle antiche canzoni dei trovatori, dove l’amore è uno dei temi più diffusi e sentiti. E proprio come in quella tradizione, anche qui l’amore ha come obiettivo la controparte femminile. Che però stavolta non resta sullo sfondo, algida e statica, ma è raccontata nelle sue reazioni altrettanto vive e passionali di quelle del poeta, sfiorando a volte la disperazione, la caduta nel tradimento. Il tutto al ritmo insieme geometrico e cantabile di versi brevi e brevissimi, più spesso settenari, come nelle ballate e nelle canzonette, le forme metriche del poetare leggero. Eppure, in questo Affari di cuore, la leggerezza non è protagonista. Ruffilli, poeta, autore di raffinati racconti, traduttore di Gibran, Tagore e dei metafisici inglesi, nei testi poetici più recenti aveva scelto temi delicati, come la malattia, la tossicodipendenza, la morte. Memorabile in questo ambito il suo poemetto del 2001 La gioia e il lutto. Anche questo nuovo libro andrà dunque letto alla luce di questa tensione verso le più nascoste sfumature della realtà umana. L’amore, come la rete di metafore con cui è raccontato mostra bene, è vibrazione profonda della vita, forza che viene da oltre l’umanità e la coinvolge portando con sé atomi di infinito. Un’energia non del tutto conoscibile e mai controllabile, che si contrappone al peso del male, spingendo verso l’alto come quello schiaccia verso il basso. L’amore è il mistero quotidiano delle nostre vite, il nostro legame con l’assoluto. Ecco dunque spiegato il senso di sacralità che pervade molti versi, il contraddittorio gioco di fughe e abbracci, le «coincidenze degli opposti», la beatitudine nel tormento, Il «ritrovarsi intero» nella frammentazione degli incontri. «Essere strappati da se stessi»: questo il risultato estremo della dinamica amorosa, che in tal modo trascina verso il vero sé. Essere al centro di se stessi mentre si è protesi verso l’altro: questo il paradosso dell’attrazione, delle schermaglie, e infine della resa al proprio sentimento.

BIANCA GARAVELLI in “Avvenire” 05/11/2011"



RUFFILLI E LA ZONA DEL CONCRETO
Volutamente cancello dalla memoria ogni precedente scrittura di Paolo Ruffilli: non con questo intendendo suggerire su di essa un giudizio limitativo, ma unicamente allo scopo di porre nella debita evidenza il salto di qualità che egli mi sembra avere compiuto in questo Prodotti notevoli. Nella carriera di ogni poeta si pone prima o poi il problema di questo salto: è il salto dalla letteratura alla poesia propriamente detta, il taglio di un nodo, il rischio che lo scrittore è quasi irresistibilmente portato a correre (e qualche volta sarà anche per disperazione) verso una sfera creativa dove cultura, esperienza e scaltrezza (aggiungiamovi pure un’astratta intelligenza) non gli possono bastare più, sicché come un acrobata del circo egli è costretto finalmente a esibirsi "senza rete".

è il momento dell’incredibile semplicità, del poeta non più "costretto a essere poetico" (V. Woolf): è arrivato anche per Ruffilli: che qui si fa, nell’apparenza dell’occasione, trascrittore di emozioni e movimenti in mezzo ai quali, per sua condizione, egli vive; e che, scolaro dei suoi scolari, impara il balbettante, incoerente, frammentario e occasionale linguaggio della vita. Quale vita?

Non certo la vita senza tempo e senza luogo dell’eterna riflessione esistenziale: per nativa inclinazione, come stanno del resto a testimoniare i versi fin qui pubblicati. Ruffilli doveva puntare sulla zona del concreto, dell’immediatamente identificabile. E poiché il suo concreto quotidiano è la scuola, ecco che egli ci ha dato una poesia della scuola così come potevano esprimerla le voci, ora tenere ora sguaiate, di aule e corridoi negli intervalli, preludi o post-ludî in cui la voce pedagogica, la voce istituzionale del luogo, non ha né può pretendere udienza. Qui parla una popolazione della scuola che, non soltanto in omaggio a un luogo comune, anticipa e precorre il discorso (o la babele) della società civile nel suo complesso: e quel che maggiormente colpisce è lo spessore delle implicazioni anche culturali e politiche indotte dalla cordiale, affabile, ma anche spietata rappresentazione che il poeta ci porge di questo universale miniaturizzato.

Nonostante la disarmata (anche) cantabilità di taluni passaggi, Ruffilli si propone qui come poeta di notevole impegno sperimentale: la sua bravura (se mi è lecita la parola) è consistita infatti nell’indurre al silenzio, o almeno a una sufficiente discrezione, quella tentazione letteraria di misurarsi su alcunché di preesistente e autorizzato che per molti aspiranti alla poesia continua a costituire un dannato e facile trabocchetto. Egli ha, insomma, riconquistato in sé una condizione di innocenza che lo mette in grado di lasciar parlare una voce che diventa sua in quanto proprio attraverso di lui si esprime da una toccabile realtà traducendosi in questo non celebrativo, non trionfalistico, non parenetico, ma problematico e vivo "poema pedagogico" di una scuola italiana alla soglia degli anni ’80.

Non è risultato di poco conto: è un risultato, anzi, da annoverare fra gli esempi contemporanei di una linea poetica che, nella nostra tradizione, ha precursori illustri, remoti e recenti (da Jahier a Pagliarani, per suggerire due nomi);ma è anche un risultato che senza dubbio porta l’autore a un livello di giuoco piuttosto alto, di più difficili responsabilità.

Adesso lo aspetteremo, dunque, sul dopo.

GIOVANNI GIUDICI in "Almanacco dello Specchio", n. 9, 1980, Mondadori Editore

 




PENSIERO E IMMAGINAZIONE
Se c’è una cosa che dobbiamo pretendere da un poeta è che ci si riveli diverso da come ce lo aspettiamo. Proprio perché così ci porta su un terreno che neppure sospettiamo e ci parla di qualcosa che ancora non sappiamo, costringendoci alla sorpresa e alla scoperta. è il tipo di esperienza che ho fatto a ogni nuovo libro di Paolo Ruffilli, nel segno della continuità eppure della continua variazione.

Ruffilli, che è del 1949, ha cominciato a pubblicare piuttosto presto, nei primi anni Settanta. Subito apprezzato dalla critica, ha preso spicco con Piccola colazione (Garzanti, 1987), singolare operetta tramata di ironia, asciutta inquietudine e piacere di muoversi in una cantabilità abilmente sommessa, antilirica. Giuseppe Pontiggia, nella prefazione, la definiva con esattezza “romanzo di formazione autoironico”. I brevi movimenti che compongono il testo raccontano una storia di minime scosse e fuggevoli lampi di memoria; ma quel che conta è il tono del racconto, insieme partecipe e gentilmente distaccato. Una situazione che già prima appariva in formazione, con le sue battute rapide e fulminanti consegnate alle parentesi, in una sorprendente e accattivante cronaca in versi scritta negli anni 1975-79 ma pubblicata nel 1990: Diario di Normandia (Amadeus); cronaca, si intende, reimmaginata e sceneggiata in una nuova forma lirica asciutta e coinvolgente nella presa di distanze.

L’inclinazione a oggettivare i dati, i segni della soggettività, si accentua nella successiva operetta Camera oscura (Garzanti, 1992), dove l’autoironia lascia il posto a una drammaticità senza enfasi né lamenti. E anche qui non può sfuggire ai lettori la percezione del tocco narrativo leggero e contratto che contraddistingue la poesia di Ruffilli. Stavolta i dati iniziali emergono da un pacco di vecchie fotografie. Segni muti. Parvenze dell’accaduto come poste “sotto vetro”. Però, attenzione, avverte l’esordio: “I vivi sono morti: / colti in assenze / di statuto, nell’atto / di discesa senza porti / ma con le sue partenze / e i suoi arrivi. / Morti vivi”.

Le vecchie fotografie sono povere tracce, eppure a pensarle parlano. Un po’ “romanzo famigliare”, come lo chiama Giovanni Raboni in una nota che chiude il libro, un po’ autobiografia del sé bambinesco incantato dal senso del proibito, e un po’ accertamento lancinante di quanto inevitabilmente va perduto e chiede di alleggerirsi, riconoscersi nel presente intemporale della poesia… Camera oscura risponde a un intrico di sollecitazioni che non possono mai finire. Altra sorprendente caratteristica del libro (di ogni libro di Ruffilli), quanto più piccolo e frammentario tanto più capace di rivelarsi compatto e inesauribile per il lettore.

La gioia e il lutto (Marsilio, 2001) ha un sottotitolo che lo colloca a prima vista in una dimensione assai diversa da quella “romanzesca” delle opere precedenti: Passione e morte per Aids. Difatti il tono non è più sommesso, ma offeso e spaventato; ora predicatorio oppure orante, o rivoltoso, ora accanitamente riflessivo, o teso con furente illusione “verso l’impensato”. Una bella gamma di variazioni dentro un tema che sembra bloccato. E, intanto, raccontando comunque una storia.

La gioia e il lutto è un recitativo di singole voci anonime. Chiusa ognuna nel proprio pensiero, si alternano e non dialogano tra loro. Tutte partecipano alla severa rappresentazione farneticando con lucidità. Così Ruffilli ottiene un effetto corale di alta e astratta consonanza, mentre il lettore non dubita che la tragedia è angosciosamente reale. Il poeta l’ha vista in faccia e l’ha ascoltata e riascoltata nella mente. Come dice Pier Vincenzo Mengaldo nella prefazione, “La realtà, per Ruffilli, è in fondo tale solo se pensata dal soggetto”. Pensata, sì, e immaginata (pensare e immaginare sono, appunto, le costanti della poesia di Ruffilli secondo un passo che è ormai fuori dall’elegia).

C’è la voce del giovane morente, che si fa sentire (dalla sua abissale distanza) finché la devastazione della malattia non gli toglie la capacità di pensare. E riconosciamo la madre, il padre, gli amici, l’amante. E c’è una voce che le pensa tutte sulla morte e il dopo, alla fine con forte accento religioso, cosa che non bisogna attribuire semplicemente a una presunta fede dell’autore. Ecco la capacità di astrazione di Ruffilli, il quale – ammettiamo che sia lui – scrive serenamente: “è il pungolo / che incalza e spinge / senza lasciare tregua, / lo stimolo del lutto”. Il pungolo gli fa squadernare “oggettivamente” tutte le ipotesi. E lo stesso pungolo gli fa ricordare il leopardiano Coro di morti.

Quella stessa inclinazione a oggettivare i dati soggettivi di cui si è detto rende capace Ruffilli di calarsi nella soggettività degli altri, da poeta che è anche narratore (allo stesso modo in cui, sia pure in forme differenti, da narratore riesce a rimanere poeta – grande rarità – nei racconti del suo Preparativi per la partenza, Marsilio 2003). Quello che accade con le molteplici voci di La gioia e il lutto, accade anche con la mutevole voce recitante di Le stanze del cielo e con quella esaltata e sconfitta di La sete, il desiderio, l’altra sezione del nuovo libro che conduce il lettore in due territori a dir poco inconsueti per la poesia: lo spazio concentrazionario “esterno” della prigione e quello “interno” della tossicodipendenza, in entrambi i casi dietro all’ossessione della perdita della libertà.

A Ruffilli poeta interessano tutti gli aspetti della vita e in particolare quelli segnati dalla sofferenza e dal male (il male fisico e il male di vivere), come appare evidente nella citazione da Mori i Po posta ad esergo del libro: “I poeti, al contrario di tutti gli altri, sono fedeli agli uomini nella disgrazia e non si occupano più di loro quando tutto gli va bene.” E, per misurarsi con il Male, usa i suoi mezzi di sempre: il passo felpato e breve, un partecipe distacco, la cantabilità sommessa e antilirica dal ritmo sincopato. Soprattutto non si lascia condizionare dall’apparenza dei fatti, perché la realtà è sempre diversa da quello che appare, anche dentro le celle di un carcere (“…crescono qui piante / che voi di fuori / non conoscete ancora, / accadono cose / che occorre collocare / in un mondo intermedio / distante chilometri / dal vostro”) e nella tirannica schiavitù della droga (“fu anzi la coscienza / minuziosa / di me e del mondo / a muovere e guidare / i passi ignoti / del mio precipitare”). Meno che mai si arrende di fronte all’ipocrisia, alle paure e all’ “odio infinito” che la società riversa sui suoi reprobi.

Come nei suoi racconti di Preparativi per la partenza, Ruffilli ci suggerisce che esistono molte realtà, insieme incidenti e parallele, per la cui lettura occorre esercitarsi con cautela e con modestia (con umanità se non con amore) oltre ogni abbaglio dell’immediatezza. Lo fa attraverso il monologare di un carcerato (del “carcerato”) e di un drogato (del “drogato”), insieme nel concreto e nell’astratto, nella storia personale e in quella generale, dal punto di vista di chi ha perduto “per colpa propria o altrui la luce” della libertà. E, se la voce del tossico è ora lucidamente invasata e ora altrettanto lucidamente disperata (“so nel vivo / per ogni grammo di piacere / i quintali di dolore / di vomito e di noia / che è costato, / per tanto paradiso / quanto inferno di più / ho attraversato”), la voce del detenuto cambia continuamente tono: offeso, riflessivo, nostalgico, deluso, rivoltoso. Proprio come per La gioia e il lutto, di nuovo una bella gamma di variazioni dentro un tema che sembra bloccato.

Il procurare il male degli altri e il proprio, dentro l’enigma della vita, va considerato con più dubbi e meno certezze, al di là o dentro la necessità di amministrare la giustizia e di far rispettare la legge. Come il detenuto tenta di opporsi alla totale cancellazione della sua personalità nella reclusione (“Ma che significa punire? / è un patto: si arriva / a giudicare il fatto, / non la persona”), così il drogato rifiuta di farsi omologare dentro le categorie scontate (“Ma non perché / incompreso / e non amato, / debole forse / non vittima però, / estraneo a tutto / e di sicuro fuggitivo, / uno che sente / l’ebbrezza di scappare / verso il vuoto, / tra le braccia / del suo niente”) e, intanto, ecco delinearsi un’ulteriore tangenza tra le due parti del libro: il dilagare della droga dentro il carcere, in cerca di “una via / più rapida / per non vedere, / per non pensare / al tuo dolore / e conquistare il mondo / che intanto / ti scappa dalle mani”. Paradosso ulteriore della permeabilità di “grate e cancelli”, di tribunali e di codici, a quell’entità inarrestabile che intacca e corrompe tutto.

Si staglia sempre più inquietante la solitudine che incatena “l’io delinquente”, mentre emerge lo squallore di un regime carcerario che al di là dell’impegno e degli sforzi di civiltà è il segno tangibile del fatto che “le grandi conquiste / dello spirito / quaggiù sono solo / lettera morta. / In basso regna / l’abiezione: / il male non si vuole, / semplicemente è”. Ma, di fronte a quest’uomo dallo sguardo spento che non è più vivo eppure ancora non è morto, sordo e muto ormai a tutto il resto, consapevole del suo “inferno” (“Non c’è ragione / per tanto orrore. / Qualunque spiegazione… / Neppure Dio lo sa / perché l’ho fatto”), ecco nascere e consolidarsi un rispetto nei confronti dei comportamenti anche più efferati, delle scelte distruttive e suicide. Un rispetto non da “buon cristiano”, ma di una intelligenza sensibile che sospende il giudizio e si sforza di conoscere fino in fondo per capire.

Viene in mente quello che dichiara il capo della polizia in uno dei racconti di Somerset Maugham: “Io ho il compito di impedire i delitti e di cercare i colpevoli quando i delitti avvengono, ma ho conosciuto troppi criminali per pensare che nell’insieme formino una categoria peggiore delle altre. Può capitare che una brava persona sia costretta dalle circostanze a commettere un delitto e, se si fa prendere, viene punita, ma non per questo smette di essere una brava persona. Naturalmente la società punisce chi infrange le sue leggi, e fa benissimo, ma non sempre le azioni sono il metro giusto per giudicare un uomo. Avendo la mia esperienza di poliziotto, si sa che quello che davvero conta non è ciò che la gente fa ma ciò che la gente è. Per fortuna i poliziotti non devono occuparsi dei pensieri della gente ma solo delle loro azioni, altrimenti la questione sarebbe molto diversa e molto più difficile”. E, non essendo appunto un poliziotto, Ruffilli si occupa soprattutto dei pensieri della gente e di quello che le persone sono, non di quello che fanno.

Nella poesia di Ruffilli accade qualcosa che molto raramente si ritrova nell’esperienza egocentrica dei poeti che pure riescono spesso a trasformare in valenza universale la loro dimensione più individuale. Ruffilli, istintivamente, mette sempre in rapporto ciò a cui dà voce con il contesto sociale in cui si muove e parla. E può darsi che sia l’effetto dell’inclinazione narrativa sulla sua vocazione di poeta. Ma è un fatto che, fuori da qualsiasi volontarismo, la sua poesia è sempre anche “civile”, di qualsiasi tema tratti (e non c’è tema, per lui, che non sia adatto a far poesia). E il riscontro civile, o se si vuole collettivo, è la conseguenza indotta e il valore aggiunto della già di per sé validissima ricerca di una poesia che ha insieme i sapori forti della vita e il ritmo implacabile del pensiero in una musica inconfondibile e direi irriducibile, unica nel suo genere da noi; una musica elegante e rarefatta che mi ha sempre colpito e coinvolto, tra Béla Bartók e il cool jazz.

ALFREDO GIULIANI Prefazione a Le stanze del cielo, Marsilio, 2008, e in “La Repubblica”, 14 febbraio 2008



LA LOCUZIONE IN "QUATTRO QUARTI DI LUNA"
L’impressione che si ricava dall’insieme del libro è quella di un passaggio da una scrittura a una locuzione, se per scrittura, impiegato qui in accezione particolare, s’intenda un discorso poetico che muove da se stesso a se stesso, mentre la locuzione suppone proprio nel suo modo stesso di spiegarsi un destinatario. Non è importante che nella "Libreria del Cedro", come in altri versi della prima sezione, il destinatario di questa locuzione sia perfino esplicitamente esibito; ciò che è rilevante è piuttosto la struttura particolare del discorso. In realtà questa locuzione non si dirige a nessuno; è ancora ipotetica: ma basta questa ipotesi a rendere naturale l’incorporazione di una citazione (dantesca, ma meglio stilnovistica) alla chiusa della "Libreria del Cedro", che si qualifica non come mero intarsio letterario, bensì come momento in cui letteratura e vita si integrano, e la parola è la parola di locuzione. In certo modo quella citazione mi sembra risarcire l’ironico-disperata "dichiarazione di fallimento" dell’ultima pagina (ma l’ordinamento dei testi è cronologicamente decrescente, dalle composizioni più recenti alle più tarde): "si ritrattò il poeta / dai capelli ritti, / il teoretico saccente / per contraddizioni lacerate". Certo la poesia di Ruffilli, l’intero suo libro, non dicono "come" (forse nemmeno "se") la conciliazione fra i due poli della Parola e della Storia sia possibile. E certo c’è nella sua posizione una larga sfiducia sui poteri dello scrivere e insieme un rifiuto alla sfiducia totale; "Nella penombra gialla" lo testimonia attraverso spie grammaticali, l’alternativa di modi verbali: "scioglie… scioglierebbe".

Ma il compito di un libro non è, naturalmente, risolvere semmai proporre. Mi pare che Quattro quarti di luna disegni una personale parabola di crescita, in continuo acquisto, suscettibile di sviluppi, ma intanto già lucida e coerente, nel più generale panorama della poesia sicuramente importante.

GIULIANO GRAMIGNA in Quattro quarti di luna, Forum, Forlì 1974

DESTINI IN FILIGRANA
La poesia di Paolo Ruffilli è un luogo di energie in transito, di spiriti in fuga. La sua voce smuove aloni gravitazionali, pulviscoli di esperienze o riflessi di ipotesi con la stessa amabile scioltezza di un antico intarsiatore di fili di lana e di seta. Del tutto ingannevole è la semplicità della sua lingua, benché non certo falso sia il suo radicamento nella quotidianità. Le "ariette" in versi di Ruffilli hanno qualcosa di altrettanto erratico e impalpabile quanto le foglie disperse al vento dalla sibilla: a tratti paiono disegnare un senso largo e compiuto, poi si sfaldano, sfuggono, precipitano verso orizzonti molteplici lasciandoci solo tracce di senso, ma come se queste tracce fossero tutta la rivelazione ancora possibile per noi. Il miracolo è che, in questa disseminazione, la luce circola davvero: non il caos postmoderno è ciò che ci raggiunge dal cuore di queste vertigini, ma una sorta di musica altra, capace di mostrarci la vita come infinito, ondoso e segreto, palpitante e sofferto contrappunto.
Con una silloge di brevi racconti ("Preparativi per la partenza", Marsilio) Ruffilli torna ora a provocare e incantare le nostre solitudini di lettura. Abbandonandosi al piacere dell’affabulazione come alla sola vera forza ancora in grado di dar fiato al nostro bisogno di "sapere", di ampliare le nostre mappe ideali, il libro ci si offre come un’esplorazione di destini colti in filigrana, nella loro silhouette emblematica, nei momenti cruciali delle loro parabole. Sovrapponendo una serie di vite piuttosto eccentriche, al modo di un collezionista di medaglie o di foto (secondo una strategia voyeuristica già da lui collaudata in "Camera oscura"), Ruffilli ne evidenzia implicitamente le simmetrie e le varianti, i movimenti e le stasi, le differenze e i ritorni; soprattutto cogliendo il loro dispiegarsi fra le innumerevoli alternative della realtà (il mare e la terra, il centro e la periferia delle città, la veglia e il sonno, la legge e la colpa…), egli sa individuare quell’inarrestabile circolazione di linfe vitali che sfida e trascende gli steccati della nostra mente.
Fra tutti i personaggi che l’autore immagina di incontrare (un marinaio stabilitosi in montagna, un messicano specialista in tuffi "estremi", uno scrittore passato attraverso la terribile esperienza dell’afasìa, un’ex-spogliarellista, un ladro votato a un eterno fallimento…) un rilievo simbolico molto particolare ha l’ermafrodito residente a Berlino. In questa creatura indefinibile secondo i generi grammaticali, ciò che si esprime è il mistero dell’uno annidato al fondo della polarità. Evocando dalle "Metamorfosi" di Ovidio il celebre mito della ninfa che, "innamorata del giovane Ermafrodito, aveva chiesto di essere indissolubilmente legata nel corpo a lui", l’autore confessa la passione amorosa di cui si alimenta la sua ricerca di casi-limite, di storie votate allo straordinario o al paradosso. Come un ultimo allievo del Platone "erotico" del "Simposio", e insieme dei maestri del Tao, Ruffilli vede, meglio di tutti gli ideologi, i disastri che nascono dalla separazione delle "due facce della luna": il maschile e il femminile, il pieno e il vuoto, la luce e l’ombra, la parola e il silenzio. Tutto il libro è un inno a ciò che spiazza le categorie rigide del pensiero: al coraggio di vivere sul filo del rasoio, affidando alle corse in moto un’impossibile sete di Dio; alla libertà di chi, dopo aver sempre vissuto tra le forme supreme della creazione (come un ex-direttore di Brera), può scegliere di vivere in un appartamento squallido della periferia per non cedere al ricatto dell’estetismo, per ricordare a se stesso che l’autentica bellezza non ha orizzonti o limiti. La vita, infatti, "non è né bella né brutta": alla vita bisogna lasciarsi andare senza giudicarla, ma "con rispetto e con amore". Solo in questa specie di appassionata epochè la fiammella del vero può rinascere dalle ceneri della mente discriminante, fonte di tutte le intolleranze, di tutti i fanatismi e le violenze. E solo accettare la vita in toto, con pietà e gratitudine, può prepararci a quella "partenza" che tutti ci attende: la morte.
Con il titolo del suo libro, forse Ruffilli ha inteso fare una specie di brindisi funebre all’ultima raccolta ("Preparativi per la villeggiatura") di uno dei poeti italiani del Novecento più esposti al richiamo della morte: Remo Pagnanelli. Ma pochi autori sono così lontani tra loro. Mentre in Pagnanelli covava un lutto immedicabile, una ferita senza rimedio, Ruffilli sa inviarci, attraverso e oltre lo strazio, scintille d’amore vero per la vita. Benché molto, come poeta, abbia appreso da Caproni, Ruffilli è refrattario a ogni deriva nichilista. In questi racconti il sentimento lirico, complice e pudico, tenero e trascolorante, della fragilità e del mistero dell’esistenza, può ricordare il Parise dei "Sillabari". Ma tutta e solo di Ruffilli è la qualità esatta e inappariscente, neo-fiamminga, della scrittura: lenta, silenziosa nevicata di parole che scendono sulla pagina per dare una forma bianca, una forma senza forma, ai nostri sogni e ai nostri sospiri.

PAOLO LAGAZZI in “Gazzetta di Parma”, 19.12.2003



AL TERMINE DELLA NOTTE
Ruffilli continua quell’intrepido, appassionato scandaglio delle situazioni estreme dell’esistenza che lo ha portato a misurarsi col monstrum dell’Aids nel dramma in versi "La gioia e il lutto", come con i destini di uomini appesi al filo dell’aleatorio, scossi dalla febbre dell’avventura e del rischio, nei racconti di "Preparativi per la partenza". Le "stanze" che ora Ruffilli percorre sono quelle delle carceri e della droga, due trafile di luoghi, reali e mentali, avvitati su di sé come una teoria di specchi autoriflettentisi, alludenti a un "infinito" che in realtà è lo squadernarsi ossessivo di un’aporia. Nella prima parte del libro, quella carceraria, i testi snocciolano, come da una “Spoon River” di morti viventi, parole molto diverse e simili nella pena: scie di fumo e di sangue, palpiti d’anime serrate nella morsa del rimpianto, dello strazio e dei sogni, voci offese e in rivolta, echi di carni nude di fronte al fallimento, e tuttavia brucianti del desiderio di attenuarlo in un modo qualsiasi, a costo di sciogliersi, di cancellarsi, di smarrire le ultime briciole della propria  identità. Ciò che più di tutto condanna gli uomini prigionieri della Legge è il nodo inestricabile di un tempo "eterno" e insieme assente: in carcere l’esistenza non fluisce, è sempre identica a sé stessa come la morte, eppure ha, nel suo nulla, un’evidenza assoluta; così ogni prigioniero è "conservato" nel suo "essere perduto", è vivo solo nel lutto della speranza. Bloccati dal terrore di qualcosa che dura unicamente per negarli, i prigionieri non possono capire né sé stessi né la Legge, non possono mai davvero sapere perché sono arrivati a essere quello che sono e a dimorare qui, in questo universo parallelo alle luci-ombre della vita "autentica". Alcuni di essi tentano di affidare, caparbiamente, alla scrittura la ricostruzione di "una improbabile / cercata verità", il barlume di un’autodifesa – ma in prigione ogni discorso pare sempre pronto a tradire chi lo pronuncia: "Le parole, a un tratto, / cominciano a strisciare / più viscide dei vermi / lungo il muro. / Solo il silenzio / può sembrare allora / il modo per restare / vivi ancora …".

Se la parte carceraria delle "Stanze del cielo" disegna, fra tutte le voci che si inseguono a distanza, una grande cavità d’indicibile, un vuoto (o un troppo pieno) di senso che è il mistero stesso del bene e del male, del peccato e del dolore, della colpa e del destino, la seconda parte ci mostra la parabola degli schiavi della droga come il frutto perverso di una sete di nulla, di vuoto: come l’esito di un bisogno di "crollare in alto", o di un desiderio senza oggetto concepibile se non l’assenza di ogni oggetto, di ogni limite, di ogni senso. Dietro i passi vacillanti di questi perduti figli del mondo c’è, dunque, una sorta di chiamata che essi hanno scambiato per una voce sacra, e che invece li allontana violentemente dal cielo, così come il cielo è precluso ai reietti della prigione. Ma questa lontananza dalla verità non può mai essere assoluta e senza scampo. Benché intrappolati in un intrico infernale di inferriate e di muri, tramato dalla legge o dalla loro stessa mente, sia i  carcerati che i drogati conservano un nocciolo d’innocenza, una parte "infantile" di bellezza che è la radice  irriducibile della loro umanità. E’ da quest’ultimo orizzonte che possono fiorire quei piccoli e immensi doni evocati da uno dei prigionieri chiamati a testimoniare: "crescono qui piante / che voi di fuori / non conoscete ancora…". è questo il fondo senza fondo che, aiutandoci a combattere le nostre false certezze, Ruffillì ci invita a riconoscere portandoci per mano, con tocchi lievi, sino al termine della notte dell’anima, là dove ci attende, ancora e sempre, il volto tragico e troppo umano di Dio.

PAOLO LAGAZZI in “Gazzetta di Parma”, 20 marzo 2008

UN TRATTATO SISTEMATICO: NATURA MORTA
In tutte le sue raccolte di versi, i suo romanzi e racconti Paolo Ruffilli dispiega le scintille di una sapienza, di un pensiero, di una gnosi capace di nutrirsi delle pieghe anche più dissonanti della vita contemporanea ma allo stesso tempo di vibrare come un’arpa antica, come un clavicembalo temperato su passi e ritmi, su fughe e controfughe che hanno qualcosa dei leggerissimi azzardi matematici di Bach, delle scale, delle vertigini prospettiche o delle illusioni metafisiche di Piranesi. Tuttavia mai, prima della nuova raccolta "Natura morta", il poeta aveva dispiegato i capisaldi del suo pensiero in un’architettura di taglio completamente filosofico, qualcosa come un trattato a suo modo sistematico, come un manuale d’iniziazione ai segreti di una vita equilibrata e armoniosa che può ricordare i “Versi aurei" di Pitagora, certe opere della tradizione alchemica o, ancor meglio, i classici del Taoismo. Tutte le intuizioni sui rapporti sempre aperti, fluidi e dissimmetrici del pieno col vuoto e viceversa, che attraversano i precedenti libri di Ruffilli, tornano in questa nuova raccolta addensati in versetti sapienziali – perlopiù brevi e scanditi in un ritmo incisivo, erratico, contrappuntistico, atonale – in cui la dinamica della vita si disegna come un’altalena di guerra e di pace “distratta nel suo / essere saldata / per unione nel distacco", come "forma senza forma" o figura senza figura, come peso in quanto "matrice" del leggero o caso votato alla necessità, come quel "margine sottile / che si dispone tra / il niente e la materia", e così via, in un glissare di paradossi che ha l’iridescenza di un vetro smerigliato e la durezza icastica di una lente convessa. Di fronte a queste leggi segrete, forti come la pietra e imprendibili come l’acqua, che innervano tutte le forme dell’esperienza, la possibilità di un cammino di verità nasce non solo da una viva coscienza della relatività delle cose (nulla è più rigido della ragione aggrappata al principio di non contraddizione) ma anche, o forse specialmente, dalla capacità di accettare ciò che è senza forzarlo, così come, quando si mangia, è bene alzarsi da tavola "mai pieni del tutto" ("che resti un po’ / di vuoto, di riserva"). Questa accettazione è come un margine d’aria, un taglio di luce, un’intercapedine di senso indispensabile per preservarci da ogni vana tentazione di possedere il mondo nei nomi che gli assegnamo, negli strumenti con cui cadenziamo il tempo o nelle dimore della nostra mente, perché "senza nome è l’inizio / del cielo e della terra", e sfuggente a ogni peso e misura è il mistero "dell’eterno scaturire / del principio". L’uomo consapevole abita il mistero come una casa fatta di nulla e di tutto; è in grado di cogliere nella luce più viva il buio più fitto; soprattutto non cerca di bruciare le fantasticherie e le illusioni sull’altare di una verità denudata, perché sa che solo attraverso l’immaginazione abbiamo accesso al "grande vero", quello che brilla attraverso le sirene, le allegorie, i simboli e i miti. Proprio come nei "Versi aurei" di Pitagora, che alle riflessioni sull’armonia, sul numero, sull’anima e sul cosmo affiancano raccomandazioni per l’esercizio quotidiano della virtù, consigli dietetici e indicazioni pratiche di comportamento, la raccolta di Ruffilli si conclude con un "Piccolo inventario delle cose notevoli" che è una specie di amabilissimo erbario di suggerimenti per un’esistenza capace di nutrirsi con delicatezza e prudenza del sonno e della veglia, delle bevande e del cibo, della quiete e del moto. Attento alle abluzioni del mattino come a un imprescindibile rendiconto con la vita profonda del corpo, con la sua quintessenza, paziente nel valutare e distinguere i frutti delle stagioni e dei momenti, le qualità delle erbe e la forza delle nostre necessità naturali, il saggio su cui il poeta proietta la propria passione di giustizia e di limpidezza è una figura, allo stesso tempo, possibile e utopica, radicata nella concretezza della vita e irradiata da un quieto pathos dell’assoluto. Un’appendice concepita nella forma di appunti di poetica ci svela con fiammante chiarezza come tutto il libro si connetta con la restante opera di Ruffilli nel segno di una "ricerca dell’identità": "Noi stessi e la realtà intorno a noi, tutto è parte di un colossale processo di metamorfosi". Il mondo non è che il battito cardiaco di questo processo: la poesia può solo farsene cassa di risonanza cercando di cogliere la "grazia" anche dentro il dolore, la leggerezza che resiste anche nel perdersi dei nostri incontri più struggenti, più dolci.

PAOLO LAGAZZI in “Gazzetta di Parma”, 29.11.2012

 



FLASH STORIES
In his poems we find Ruffilli’s unmistakable stylistic invention to tell stories nicely shattering in numerous short teeth flashes, now delightfully descriptive, now almost reflexive, often seemingly unrelated and almost autonomous, but always bright and sparkling. Through that he is able to get for the reader of today’s poetry the admirable effect never to bore, while talking about things, people and facts of plain daily life and routine. His Small breakfast, 1987, did not have a real poematic structure, despite being made up of several ‘poemas’, is the next Diary of Normandy (1990) Ruffilli that addresses the fresco, made with several paintings tied together by the unit of time and place, with the innovation of focus at the beginning of each painting, almost a prologue or introduction, its coloristic descriptions of environment and situations. The short poems or little stanzas, which followed this introduction of environmen, formed a sort of  psychological ’exploration’, reflective development divided into many small individual meditations, born in the frame but kept also typographically distinct from it with the aid of braces, along with an inventory of scents that spring vivid to pursuant and in reading is impossible not to inhale through the smell what is being described. In Darkroom (1992) Ruffilli leads to the highest perfection the formal structure of the fresco: unit consists of several paintings where he made a clear distinction between the descriptive part of each and the number of flash reflections.
Return in these poems the themes, dear to the poet Ruffilli, of the empty and full, movement and stasis, presence and absence, the meaning of things into their opposite that only fully defines them and the opposition that uncoupling unites them under one law. And returns the duality of life and death in an indissoluble bond so dismayed by the author himself that almost can not understand how life must come from death.
Relevant, in such a context, becomes the enucleation of the process of naming the objective space, and, even before, the genesis of the word itself. Word that, for the use that the author does, has a strength and an intact atavistic pregnancy, and rises to an absolute role. Consequently, become indispensable both the musical impulse as a regulator of versification, both the stripping and the depletion of the composition that enhance, in fact, the word and its stroke.

JAMES LAUGHLIN For Like it or not, 1995

 

IL PENSIERO E L’AVVENTURA DEL NOME NELLA POESIA DI PAOLO RUFFILLI
In un intervento su "Parol" (6, marzo 1990) Ruffilli, discorrendo dei motivi ispiratori e delle intenzioni del suo fare poesia, segnalava, accanto alla necessità di tradurre in "pronuncia lieve e sfuggente" i nodi irrisolti del confronto io-senso-ragione, smontando e rimontando se stesso, il bisogno parallelo di scoprire le tensioni contrapposte celate nelle cose, il sublime implicito nel calco, l’incompleto che si annida nella compiutezza. E accennava subito dopo, sempre in quell’occasione, alla legge dell’inversamente proporzionale che è alle radici del pensiero occidentale, identificato particolarmente con quel mondo presocratico "in cui si pronuncia una verità che è insieme poesia-pensiero-musica".

Se il poeta di Piccola colazione, dalla leggerezza ariosa ed elusiva, incline alla mescolanza di generi e di registri, avvertiva una affinità con Empedocle e Talete, Parmedine e soprattutto Eraclito, affascinanti interpreti della cosmogonia originaria, capaci di limpide ed essenziali osservazioni sul tempo e l’essere, gli elementi e le loro metamorfosi, doveva certo avere le sue ragioni. Che sono, ovviamente, ragioni di scrittura, di ritmi che percorrono il ‘discorso’ sintattico e strofico, allertando la parola, consentendole di accadere e di inventare, sul foglio, presenza e assenza, rigidità e scioltezza, fissità e trasformazione.

Più di un rapporto collega quelle riflessioni con i testi inediti che vengono qui proposti. In Natura morta si articolano distinte sezioni, fasi di un pensiero argomentativo (Del tempo, del nome: aforismi e frammenti da una cosmogonia) che produce come primo effetto l’esclusione dell’io, del punto di vista soggettivo e privato. Si stabilisce così la distanza necessaria ogni volta in Ruffilli, a rendere percepibile il contatto con le cose, con l’esterno ("Ti accorgi all’improvviso/ che le cose/ riescono a distrarti,/ a tratti per lo meno, dall’ansia/ e a porre tra te e la vita/ lo spazio necessario e contemplarla" – Trouville, Calvados: 8 agosto, dal Diario di Normandia, Amadeus, 1990).

Tra Piccola Colazione (Garzanti, 1987) e Diario di Normandia essa assumeva i connotati delle parentesi, delle citazioni, del corsivo, di tutti gli accorgimenti grafici che consentivano sulla scena della pagina, di sospendere la consequenzialità del ‘racconto’ commentandone tra le righe, in falsetto melodrammatico o con voce inappartenente, estranea, le anomalie, i vuoti, le sonorità contrastive. Le parentesi ritornavano in Camera oscura (Garzanti, 1992) a distinguere lo spazio "fermo" di ciascuna fotografia rispetto al rimettersi in movimento della situazione nella riconsiderazione dell’autore. Nel Diario di Normandia, in particolare si distinguevano tre tonalità: i versi in corsivo posti in epigrafe, squarci descrittivi dal cromatismo armonizzato; la meditazione dimessa parentetica, sorta di continuum narrativo nella forma di ininterrotto monologo; la segmentazione della cronaca affiorante tra gli intervalli lasciati vuoti dalle parentesi coi suoi microracconti frammentari e casuali ["strisce di case/ sulla riva Sainte-Catherine/ verde-marcio marrone/ …/ Sono blu/ col collo a barca/ i maglioni del negozio./ Lo scaffale è sottosopra,/ non si trova mai/ la taglia/ …/ (La certezza/ di non aver più fedi/ è in quel trovarsi/ volentieri, una mattina,/ indifferenti a tutto.)"]. Natura morta si situa, in apparenza, lontano da quella orchestrazione di voci; la sua dizione monotonale pare possedere nella scansione misurata e ferma la limpidezza e l’asciuttezza dell’aforisma. Ma alcuni segnali invitano a stare in guardia. Se la nozione di tempo, ad esempio, esordisce con l’immagine dell’eterno ripetitivo chiuso in circolarità assoluta ("Chioma di fiamma/ che eternamente mangia/ la sua coda"), subito dopo è il tratto lineare o segmentato a prevalere, nell’ibrida compresenza di spessori e rarefazioni ("passo contratto dilungato/ duro rarefatto"), tra gesti inconclusi ("sasso lanciato/ freccia che si perde/ sopra il tetto"), rinvii, slittamenti ("L’innesco della corsa rimandato…").

Del resto, nella vita come sulla pagina, il dilatarsi a dismisura dell’inizio consente la sospensione del termine, l’allontanamento della fine: questo, in fondo, il senso delle storie incompiute di Piccola colazione ("Appena oltre la vita/ emerge e non emerge/ pare e non pare/ Lasciandoci nel dubbio/ se esista per davvero/ o sia un inganno/ un alibi, un pretesto/ il resto di una/ storia mai avviata…") o degli indugi di Diario di Normandia, che irrigidiscono in fissità l’azione ("Bloccati in un eterno/ avvio da terra/ verso il mare aperto") o delle sospensioni di Camera oscura metaforizzate nella fotografia e nella sua durata che poggia sul vuoto e sul niente ("eppure lì sospeso/ a tempo indefinito/ disegnato, per assurdo,/ nel suo essere proteso./ L’atto mancato."). Da Leopardi a Caproni è l’ostacolo, ogni volta, a consentire l’affinarsi della percezione, l’avventura del pensiero poetante: se esso diviene sfuggente celandosi nelle cavità e porosità delle cose, nella loro dimensione enigmatica e doppia, lo spazio della ricerca si lascia occupare dai riflessi, dall’eco di identità presenti per opposizione o contrasto (il richiamarsi del nome "a ciò/ che gli è contrario"…).

Nessuna altra possibilità di durata esiste dunque oltre l’intermittenza, la casualità che difende dal compimento. Ed è qui, a un passo dal tragico, che l’ironia, musa fedele di Ruffilli, sa insinuare le sue armi segrete: un’ironia esperta di miscele e dosaggi, tra taoismo e fenomenologia, senso del perennemente mutevole e acquisizione del provvisorio, del precario. Contro la Natura morta ed ogni assolutizzazione del tempo (gli orizzonti dilatati a perdita di misura, che mutano e durano senza fine) si scandiscono, a contrasto, gesti e accadimenti brevi ("un turbine non dura/ una mattina/ né una pioggia/ un giorno intero"), affidati a uno stile trasparente e terso, dalla limpidezza e levità sorvegliatissime.

L’Eraclito delle armoniche fusioni ha esplorato ormai la spoglia quotidianità, ha sperimentato, danzando in superficie, le contraddizioni di un vivere minimo. La ‘parola’ originaria può così piegarsi a un timbro lieve (lo rilevava già Sereni), a un respiro che non smarrisce la propria agilità neppure se si impenna a discorrere di pienezza e assenza, rilevando nell’aspetto "monco" delle cose il margine di segreto, l’invisibile che il visibile contiene e completa ("l’essere e il/ non essere/ si rispecchiano/ a vicenda").

Ed è proprio l’avventura del nome a siglare, da ultimo, lo spazio della sopravvivenza: "senza le parole" – era la denuncia vibrante dell’Emilio di Porta – "siamo ciechi". Ma con la parola – conclude ora Ruffillli nell’estremo pulsare del suo verso breve – superiamo il buio e la dispersione degli inizi: tra i corpi e il vuoto si celebra così ogni volta il mistero della nascita, la legge della continuità ("senza nome è/ l’inizio del/ cielo e della terra// col nome è la/ madre d’ogni cosa").

NIVA LORENZINI in "I Quaderni del Battello Ebbro", n. 22, giugno 1999




LA PIENA MATURITÀ
Con la cautela che si deve alle opere di poesia - e alle prime letture -, credo di poter dire che con La gioia e il lutto Paolo Ruffilli ha raggiunto la sua piena maturità poetica: il che non significa, sia inteso, che non possa progredire ancora. E allora leggiamo subito il frammento di pag. 22:

A forza di salire
per quanti mesi e anni
le scale della vita,
si va imparando
con l’esperienza
il rito del cordoglio
e l’arte di morire
senza inganni:
coltivando gli ultimi
istanti, al capezzale,
celebrando l’atto
finale dell’uscita e
cercando di restituire
con l’argomento
dell’intelligenza
senza orgoglio
dignità all’insufficienza
degli organi, al danno
della funzione cerebrale
e alla distruzione
progressiva
di ogni centro vitale.

Prima di dire altro, osserviamo che già questa minisequenza ci dice qualcosa del modo di poetare di Ruffilli, cioè il rapporto per lui necessario fra gravità del tema e semplicità, appena inalzata dalla luce intellettuale, della lingua.
Come i precedenti Diario di Normandia (ma questo "in movimento") e Camera oscura (per la quale Raboni ha potuto parlare di "romanzo famigliare"), anche quest’ultimo è un "diario" privato e (tragicamente) amicale, da cui scaturiscono voci interne o - ch’è lo stesso - di un al di là mentale; e dove i testi in corsivo segnano, meglio che pause o stacchi o contrappunti, i momenti di più secca meditazione (quasi che già il corsivo indicasse, iconicamente, scarnificazione).
Non è male muovere dai dati formali, essi stessi non dissimili nella sostanza da quelli delle raccolte anteriori, poiché Ruffilli è un poeta non manieristico, ma semplicemente fedele a se stesso (si faccia eccezione, in particolare, per i continui uncinamenti parentetici, e insomma le doppie quinte, di Piccola colazione). Dominano i versi brevi o medi, con centro nel ventaglio tra quinario e settenario, ma la loro funzione, contro le apparenze, è del tutto antimelodica; la spezzatura (con inarcature anche, e non raramente, sulla e) e quasi la casualità delle misure dominano sul carattere centripeto delle unità versali. E tuttavia è proprio la sequenza ininterrotta di versi medio-brevi a contrastare la potenziale continuità prosastica del "diario".
Inoltre, Ruffilli è tipicamente quello che i tedeschi chiamano un "poeta di pensiero", ma il pensiero non si svolge, appunto, per continuità e grandi arcate, ma per frammenti e contrazioni, prese d’atto e rilanci: e come pensare altrimenti oggi, e in un secolo che ha visto in filosofia la vittoria dei pensatori per aforismi e minisaggi?
Non molto diverso, a guardar bene, l’uso della rima, che essendo fitta e dichiaratamente "facile" non ha, in linea di massima, un ruolo espressivo, raggrumante, ma - se così si può dire - di "appoggio" alla dizione e quasi di punteggiatura.
La realtà, per Ruffilli, è in fondo tale solo se pensata dal soggetto. E questa, detto per inciso, è una delle ragioni per cui egli non può essere affatto omologato ai "lombardi", che nelle "cose" credono. C’è sì qualche ritorno di Rèbora, come specialmente a pag. 36 ("…che scava selvaggia / attorce ed impiglia / fa brace ed agghiaccia / accresce e consuma…"), ma se è realtà è realtà deformata; e si veda anche a pag. 12 ("…tracolla deraglia ecc."). Insomma Ruffilli ha bisogno ogni tanto di Rèbora come di qualcuno che lo renda più aggressivo, che gli acceleri i battiti del cuore, altrimenti lenti. Come già indicato da Raboni c’è poi fra le righe, e molto di più, Caproni, l’outsider, il narratore melodico ma insieme antimelodico, presente non solo per via del tipo di versificazione, come in questo brano: "Vi ho salutati, / tutti, senza parlarvi. / Vi ho ringraziati. / Siete stati / la forza e la ragione / nei miei affanni…" (pag. 23). E sempre nell’ombra si aggira Leopardi, e si può anche risalire più indietro (si veda "amante amato", a pag. 17).
Dunque, realtà pensata. E quindi dominano, come già dichiara il primo brano qui citato, gli astratti; mentre il massimo di "cose" che (e qui diversamente da Caproni) Ruffilli può concedersi è questo: "…il fumo delle sigarette…il verduraio…le sue cassette…ogni frutto e ortaggio…" (pag. 21). Ma anche in questo luogo ci sono offerti, appunto, i generi ("frutto e ortaggio") e non le specie o gli individui, e se di quelle cose il poeta si riempie la mano, lo è, subito dopo, delle loro "forme perfette". Pochi versi sotto spunta poi la "nebbia", e non è l’unica volta, con le relative sinonimie o metonimie (ad esempio, "lattiginoso").
Per pensare poeticamente, è chiaro, Ruffilli ha bisogno che la realtà sia messa fra parentesi, stilizzata in categorie, ritirata in qualche modo nella mente che la classifica appena i suoi dati concreti fanno capolino; pensare comporta chiudere gli occhi, braccare mentalmente, per poi sostarvi, le essenze e i destini dei fenomeni; e infatti, a pag. 48: "Per tutto quello / che non vedo / io credo / qualcosa resterà", ed è una delle sequenze migliori della raccolta, nonché - significativamente - l’ultima.
Ma per quante vie si può comprovare l’evidenza che questo è un poeta della linea "metafisica" o mentalistica, e non di quella postsimbolista o orfica. Una è per esempio quella delle metafore, che qui non volano alto ma basso, come s’è visto subito nel salire le scale di A forza di salire. La realtà non è dunque trascesa per via di immaginazione libertina, ma di pensiero, al cui servizio si pone, costringendosi, l’immaginazione.
Forse vale per questo libro, con un’accentuazione fortemente privatizzante, uno degli exerga che l’autore aveva adoperato a suo tempo per Camera oscura, un pensiero dei grandi Minima moralia di Adorno: "L’elemento storico, nelle cose, non è che l’espressione della sofferenza passata". Ma già perfettamente significativo è il titolo stesso, nella sua bipolarità. Purché lo si interpreti, o così mi pare, nel senso di un’oscillazione o compresenza fra i due opposti sentimenti indicati, o meglio ancora ponendo come primo il secondo termine e facendolo seguire da una freccia che, nel tempo e idealmente, si dirige verso il primo, diventato non solo secondo ma terminale. Del resto Ruffilli ha scritto a tutte lettere, a pag. 41: "Perché il lutto / chiama la vita, / non altra morte" (e subito sotto: "Che tutto cada / morto / per essere risorto… E’ il trionfo / della vita perpetuata / mentre si è sepolta…"). Come acquattato, il poeta sembra distrarsi dalle cose concrete, metonimie della vita, ma per parteggiare più concentrato per la vita.
Con un po’ di approssimazione e metaforicità, ma non troppe, si può dire che questo libro di poesie, o diario poetico, è soprattutto un’elaborazione poetica del lutto. Il che vuol dire anche (si veda ad esempio alle pagine 41 e 45-46: "Senza la morte, no, / non ci sarebbe / né sorte né destino"…), non solo scommettere per il futuro ma affermare che il presente, negli individui e nelle generazioni, in tanto vale in quanto anello di una catena che prosegue. Che ciò sia detto in poesia, e senza apparati ideologici dichiarati, entro un’epoca del più sfrenato puntinismo (e dunque anche totalitalismo, perché solo quanto nulla si sviluppa può essere dominato), un’epoca della più assoluta sfiducia nei concetti stessi di futuro, e cioè di continuità della specie e dei singoli attraverso la trasformazione in un altro che però ci è organico: ebbene, questa posizione mi sembra, già al di qua dei sostanziosi risultati poetici che ne sono generati, il maggior segno di nobiltà de La gioia e il lutto.

PIER VINCENZO MENGALDO in La gioia e il lutto, Marsilio, 2001


VISCERI E INTELLETTO
Una poesia del disincanto, eppure pronta a rilanciare la scommessa con la vita, quella dell’italiano Paolo Ruffilli, che dunque recupera l’ottimismo della volontà sul pessimismo dell’intelligenza nei riguardi del futuro dell’umanità. C’è una valenza anche civile, nei suoi versi, sia pure sempre defilata e quasi marginale ma, proprio per questo, più forte e incisiva perché autentica. Del resto, l’intreccio di elementi a contrasto è tipico di questo poeta, piuttosto epico che elegiaco, rivolto agli altri per quanto sprofondato in se stesso, capace di far convivere gli opposti in una consapevole adesione al principio di contraddizione come dinamica realtà della vita e del mondo. Raramente si legge una poesia come questa di Ruffilli, capace di essere costantemente ricerca di pensiero in qualsiasi argomento a cui decida di dare pronuncia, i legami di sangue come gli enigmi del mistero, i paradossi della propria esistenza come quelli della storia, la morte come l’amore. Una poesia che conserva il sangue dei visceri nella sua rarefatta energia intellettuale. Una poesia che pratica insieme, intrinsecamente, la dilatazione narrativa nell’illuminazione puntiforme, la distensione nella tensione lirica, sempre nella più felice leggerezza. Tutto questo in virtù della musica che la anima e la riempie, una musica originale e riconoscibile, modernissima: un franto ritmo che è trainante dentro l’aria sinfonica che rapidamente introduce, sostiene e conclude ogni componimento.

VISCERA AND INTELLECT
Poetry of disillusionment, yet ready to raise the bet with life, this of the Italian Paolo Ruffilli who retrieves the optimism of the will on the intellectual pessimism in regard to the future of humanity. There is also a civil valence, in his verses, even more secluded and almost marginal, but precisely for this reason stronger and more incisive because authentic. Moreover, the mix of contrasting elements is typical of this poet, epic rather than elegiac,  looking at the others as into himself, able to reconcile the opposites in a conscious adherence to the principle of contradiction as the dynamic reality of life and the world. Rarely you can read something like Ruffilli’s poetry, able to be constantly looking for thought in any topic decides to give pronunciation, blood ties as the puzzles of the mystery, the paradoxes of existence as those of history, the death as the love. Poetry that preserves the blood of the viscera in its rarefied intellectual energy. A poetry that practices together, inherently, dilation narrative in punctiform lighting, relaxing in the lyrical tension, always in the happiest lightness. All this thanks to the music that gives life to it, an original music, recognizable, very modern: a crushed rhythm that is a driving force in the symphonic air that quickly introduces, supports and ends each poem.

CZESLAW MILOSZ
in Poeti a Napoli, Ist. Suor Orsola Benincasa, 1991



TRAIETTORIE SGHEMBE
Presso l’editore Forum, è uscito un prezioso libretto: Notizie dalle Esperidi, di un giovane poeta che desidero segnalare per il suo indubbio talento, Paolo Ruffilli. A suscitare il mio interesse, devo confessare, era stata una sezione della raccolta, dedicata ad una visita al cimitero di Monterosso. C’era, insomma, per me una ragione sentimentale: il riscontro, di cronaca e di fantasie, legato a un luogo della mia giovinezza e della mia memoria. Mi aveva colpito come il giovane Ruffilli avesse dato dignità di poesia a fantasmi e figure di morti consegnati a poche frasi smozzicate e a solenni epigrafi. Insisto sul "come".

È il punto comunque decisivo che mi ha spinto ad andare avanti, oltre la lusinga per me del luogo caro, attraverso l’intero libro di Ruffilli. Il modo di questo giovane poeta mi è piaciuto: l’aver egli scelto la via della sottrazione, del togliere e del ridurre, per esprimere le cose del mondo e della vita. L’importanza dell’ellissi e dell’omissione, nella poesia moderna, è nota; per noi, poi, c’è l’insegnamento precocissimo di Giacomo Leopardi, maestro nell’indicare servendosi del vuoto. E, certo, Ruffilli ha fatto sua la lezione di Leopardi; in più, disegnandosi un suo percorso sghembo rispetto ai poeti del nostro Novecento. All’insegna del non dire, proprio per esprimere di più, Il modo di Ruffilli si affida a una specie di galleggiamento di piccole scaglie, piccole bolle che guadagnano la superficie salendo su in verticale dal fondo. E queste scaglie, nel loro minimo ingombro, nella loro rarefatta consistenza, riescono a rendere la realtà nella sua interezza. Il tutto, a tinte nette; con una amabile secchezza e una sua dolcezza un po’ risentita. Nel distacco, dunque; senza nostalgie o, peggio, tremori. Ma con partecipazione.

Forse sono nella posizione giusta per vedere le cose con imparzialità, nel panorama caotico della nostra poesia ultima e ultimissima; una posizione necessariamente d’arrivo e magari di fine corsa, per dirla guardando in faccia la realtà della mia vita. In ogni caso, credo di non essere lontano dal vero nel dire che, per il futuro, Paolo Ruffilli ci riserverà qualche piacevole sorpresa.

EUGENIO MONTALE in "RAI radiotelevisione italiana-Terzo Programma della Radio", 22 gennaio 1977, poi in "Discorso diretto", I, 1, 1978, con il titolo "Traiettorie sghembe"



POETA DE PENSAMIENTO
Independientemente de los reconocimientos, premios y el buen indice de venta de sus libros, la figura de Paolo Ruffilli no se deja fácilmente agrupar entre los nuevos exponentes de la poesía italiana. Su dictato poético, muy caracteristico, no se asemeja a ningún otro ni son evidentes sus fuentes, por lo menos dentro de la tradición italiana, dividida entre la larga herencia post-hermetica montaliana y la neo-vanguardista del grupo 63 y sus seguaces. Un dictado sensiblemente musical, la recurrencia a estereotipos verbales que va parodiando y complicando en el curso de sus poemas, preferiblemente de larga extensión y de versificación corta, el uso del diálogo o del monólogo y la alternancia de varias voces poéticas en cada una de sus composiciones, lo acercan por un lado a la ópera y a la operetta, por otro le dan a su obra una gracia especial que llamaríamos post-moderna, si el término no estuviera tan abusado. Ruffilli es un poeta capaz de transformar el pasado en presente, y el presente en movimiento, en sucesión de imágenes, en desencadenamiento vertiginoso de un argomento. Es un poeta de pensamiento.

ALVARO MUTIS in "Prometeo",42-43, 1996


LE STANZE DEL CIELO
Comincio con il testare la fedeltà sempre espressa di Paolo Ruffilli alla narrazione, in versi  naturalmente ma non solo, come nei racconti di  Preparativi per la partenza, del 2003; narrazione nella quale realtà vissute e realtà nominate vengono perseguite per scoprire come di fatto non combaciano. Lo faccio partendo dall’esergo di  Piccola colazione (1987) esordio poetico di fatto di Ruffilli, un esordio al quale arriva dopo diversi passaggi intermedi materializzatisi in plaquette che costituiscono, a mio avviso, una sorta di lungo laboratorio che ha stabilizzato il suo lavoro che resterà fedele proprio all’esergo di cui sopra e che recita:  “Il simbolo è l’assassino della cosa” (Lacan). L’intera opera di Ruffilli si incanala seguendo questa affermazione lacaniana: le parole vogliono esistere quindi solo come nome, prendono corpo e voce, rifiutandosi di ammantarsi di simboliche ambiguità. L’abbandono della valenza simbolica a favore di quella allegorica del linguaggio poetico detterebbe immediatamente la presenza di Ruffilli tra i poeti del dopo Novecento, come appare con sempre maggiore chiarezza.

La raccolta Piccola colazione è stata definita da Pontiggia un “romanzo di formazione autoironico”, essendo decisamente iscritta nella solida tradizione antilirica italiana del Novecento. Impiantata su una intensa distribuzione metrica del senario e  settenario, come d’altronde anche queste Stanze del cielo dove però è possibile cogliere una distribuzione del metro elettivo di Ruffilli anche su due linee versali consecutive, che conferiscono alla sua opera una sorta di cantabilità quasi melica, impiantata com’è anche su una eufonia interna non solo giocata sulla canonica rima qua e là rintracciabile ma su un ampio tessuto, quasi capillare di rimandi e richiami sonori che aggregano unità foniche tra loro e compattano l’intero componimento, con una brevità del verso che permette l’ampia gamma di tonalità maturate nella voce del carcerato di questa raccolta (amara, delusa, meditante e altro ancora).
Alfredo Giuliani nella prefazione a Le stanze del cielo sottolinea “pensare e immaginare” come costanti della poesia di Ruffilli. è affermazione ampiamente condivisibile. Dalle molteplici voci di La gioia e il lutto (2001) alla mutevole voce recitante di Le stanze del cielo, scrive Giuliani. O meglio, direi, dalla polifonia distinta della prima alla monofonia plurima delle Stanze.

A Ruffilli poeta interessano tutti gli aspetti della vita e in particolare quelli segnati dalla sofferenza e dal male (il male fisico e il male di vivere), altrimenti la citazione d’apertura di Mori i Po non sarebbe così calzante.
Giuliani parla nel caso di poesia civile per Ruffilli. Ma la poesia è, o  deve, sempre essere civile e politica nel senso pieno e etimologico delle parole: si interessa dei cives, degli uomini, e guarda alla polis, al vivere.
C’è senza dubbio un livello primo di “racconto” in questa raccolta: la voce di carcerati e droga esclusi dal mondo, di coloro che sono spogliati “sia pure nella colpa/ di ogni dignità”. Un racconto che si dispiega su una esaltante gamma di toni, in un libro che elabora “gioia” e “lutto” impastandoli con il “dolore rabbioso” e la “perdizione”. L’unità tematica, il continuo pedale metrico sospinto tra senario e settenario mi fa parlare in questo caso di una narrazione poematica, di un’opera e non di una raccolta.

Ma c’è un secondo livello possibile, allegorico e non simbolico. Ora se il Novecento è il secolo del simbolo, la nuova poesia sorta in Italia con forza dalla metà degli anni Settanta è il secolo dell’Allegoria, e quindi più Dante che Petrarca, più Caproni che l’ermetismo. Del resto, si spiega. L’uomo è drogato dall’attuale modello di vita, da questa modalità di esistere, ed è come incarcerato dal suo stesso mondo che più non riesce a tenere. Il progresso tecnologico non cammina più di passo con il progresso umano e spirituale dell’essere. La tecnologia ha lasciato troppi passi indietro l’uomo e la sua anima.

Un secondo livello, dicevo. Di allegoria. E la valenza allegorica, che soprattutto in luoghi topici di un componimento, incipit e chiusa, sembra emergere con particolare rilievo. Un solo esempio di due “stanze” di questo poema per intenderci. Si tratta di due componimenti che si susseguono e che in apertura certo sembrano essere riferibili ai due protagonisti delle Stanze del cielo ma che sfido chiunque a non far propri: “La tortura/ del «se» e del «ma»,/ che tutto/ sarebbe andato/ in altro modo …” (Se) e poi ancora “I rimpianti arrivati/ troppo tardi,/ tutto il dimenticato/ che ti avrebbe invece/ qui salvato” (Troppo tardi).

In conclusione, torno alla fedeltà di Paolo Ruffilli a se stesso: nella preziosa dichiarazione di poetica, Un’indicazione di marcia in La parola ritrovata (1995), il poeta scrive: “la mia ambizione più grande sarebbe quella di non costituire il seguito o, peggio, l’epigonismo di nessuno” e fin qui c’è riuscito davvero bene. Come è riuscito ad affidarsi all’inversamente proporzionale nella sua poesia per traguardare il sublime, “non è che intenda, per carità, rinunciare alla «grandezza» delle cose. Ma trovo giusto rilevarla nella loro «piccolezza»”.
Non so se l’aggettivo “grande” possa mai essere accoppiato alla parola “poesia”, secondo alcuni abusi, ma certo la poesia di Ruffilli è vera poesia perché è riuscita a dare voce ai silenzi del mondo.

FRANCESCO NAPOLI in “Terzo Millennio”, I, 1, luglio-settembre 2009lì 1972

 


COINCIDENCE OF OPPOSITES
There is an intellectual energy in the poems by Paolo Ruffilli, a force of intelligence that explains all in garbage without giving up the halos of emotion. And  is this coincidence of opposites, this solution in the contradiction that generates the spread of surprise and suddenly reveals to the reader what he had under his eyes and can not see. The word that comes from deep lights and in his incandescent reveals the truth of things. The revelation, enlightenment or epiphany, happens by virtue of the musical breath that pervades all the verses. And the music, we know, has the power to make us understand the incomprehensible. But in addition, through the word, Ruffilli’s poetry. offers us also the reasons. That’s why Ruffilli arouses so much interest and is translated into main languages.

C’è un’energia intellettuale nelle poesie di Paolo Ruffilli, una forza dell’intelligenza che spiega nella nettezza senza rinunciare agli aloni delle emozioni. Ed è questa coincidenza degli opposti, questa soluzione nella contraddizione che genera lo scarto della sorpresa e improvvisamente rivela al lettore quello che aveva sotto gli occhi e non vedeva. La parola che viene dal profondo si accende e nella sua incandescenza rivela la verità delle cose. La rivelazione, illuminazione o epifania, accade in virtù del soffio musicale che pervade tutti i versi. E la musica, lo sappiamo, ha il potere di farci capire l’incomprensibile. Ma in più, attraverso la parola, la poesia di Ruffilli ce ne offre anche le ragioni.
Ecco perché Ruffilli suscita così tanto interesse e viene tradotto nelle principali lingue.

Cees Nooteboom
RadioRai, 2004



LA TRASGRESSIONE COME «PASSAGGIO» NELLA POESIA DI PAOLO RUFFILLI

Può una logica basata su tre principi aristotelici di identità, non contraddizione e terzo escluso, qual è quella che sottende i saperi della nostra civiltà scientifico tecnologica, dar conto non del senso, ma solo della complessità della vita? O non opera piuttosto una drastica selezione, che riduce il conoscere all’oggettivazione della percezione sensoriale e lo finalizza al potere, che semplifica il contraddittorio e uniforma il molteplice, che nega ciò che non spiega e assolutizza il relativo, plasmando uomini ad una dimensione, appiattiti su modi di essere e di pensare stereotipati (con illusorie vie di fuga altrettanto stereotipate), anziché valorizzarne e modificarne la ricchezza interiore? Dubbi che innervano la cultura del secolo, insufficienti, come si sa, ad operare inversioni di tendenza, resi sempre più drammatici nella loro lucidità e impotenza in questo suo imminente declinare. Dubbi che si manifestano da e sollecitano una capacità di estraniazione dal flusso della vita, una capacità di collocarsi in posizione interna/esterna, uno sdoppiamento della persona da attore/agito a lucido spettatore.

Da questo ec-centrico punto di vista si sviluppano i sei poemetti raccolti da Paolo Ruffilli in Piccola colazione (Garzanti, Milano 1987), sei formelle di un polittico che con le armi affilate della razionalità scava nel vuoto della ragione e, ripercorrendo con amara ironia il dipanarsi della vita dall’adolescenza all’età adulta, giunge nell’ultima strofa a sintetizzare in modo fulminante e sereno la tragica condizione esistenziale degli uomini: « Eppure, intanto, / arresi all’evidenza / di andare navigando / alla deriva». Aveva dato avvio a questo itinerario una sorta di dichiarazione poetica (certo a posteriori, anche se collocata in premessa), in cui l’autore operava un capovolgimento nel rapporto tra le parole e le cose: la parola non è il simbolo astratto della cosa concreta, ma un a priori che platonicamente fonda la realtà della cosa stessa e ne consente la percezione: «La parola, per me, / veniva da distante. / Un a priori, quasi, / l’avvertivo. Un eccitante. / In un processo in / qualche modo inverso. / Nel darle per riscontro / una realtà che invece, / più toccata e presa, più / sfuggiva inconsistente / ai cinque sensi. / Con l’effetto di essere / lanciata contro un corpo / pronunciato e, nel / suo dirlo, di colpo / riafferrato.». E si noti come quell’imperfetto («La parola, per me, / veniva da distante») costituisca già uno sdoppiamento dell’autore, che parla di sé e della sua esperienza come dal di fuori, quasi fosse quella di un altro, o la sua d’un altro tempo. Del resto nel poemetto intitolato Per amore o per forza uno dei due protagonisti di un frastagliatissimo intreccio tra monologhi interiori, dialoghi, descrizioni interne di luoghi e interiori di anime, considerazioni parentetiche, brevi strofe gnomiche, afferma emblematicamente: «Uno si sente, a un tratto, / così, fuori di sé». Da questo sdoppiamento/ricomposizione dell’unità della persona e del dato gnoseologico prende le mosse una poesia che frantuma, intreccia e confonde i vari piani dell’esperienza esistenziale, con effetti paradossali da cui risaltano l’assurdità e il nonsenso che sostanziano la vita individuale e sociale, la storia stessa dell’umanità. Nel poemetto finale All’infuori del corpo, in cui le scene disegnate nelle cinque formelle precedenti si distillano e trovano la loro sintesi, si legge, non sotto forma di dialogo, né di monologo, ma come considerazione impersonale e quindi assoluta: «Pare che al mondo / non ci sia una storia, / che manchino contorni / definiti, che tutto / avvenga, da un certo / punto almeno, per inerzia / o per pressione di un vuoto / che acquista moto e spazio / nel procedere dei giorni / fino a farsi pieno». Questo vuoto, o quanto meno l’impossibilità di conoscere ciò che ci circonda e di capire la direzione verso cui si è sospinti, «Perché il mistero / vero è proprio in / ciò che è a vista», vengono esorcizzati da rassicuranti modi di pensare e di essere preconfezionati, da valori e riferimenti etico-comportamentali generalizzanti che dirottano l’attenzione sul quotidiano e sui ruoli sociali: «…il dolce stare alla ventura / […] / A cogliersi la vita / già condita, / così premasticata e digerita» (Fu vera gloria?).

Il prezzo di questo spostamento dell’attenzione sugli aspetti materiali – un’accettazione realistica del dato – e di questa tranquillità eterodiretta è la rinunzia ad una dimensione di vita autentica e l’accettazione di essere rinchiusi all’interno di vere e proprie gabbie conformistiche. La parola, anziché strumento di conoscenza, diventa serie di luoghi comuni e di frasi fatte; la maschera sociale del ruolo, la «persona» viene interiorizzata declassando l’irripetibilità individuale allo stereotipo; i rapporti umani aggiungono catene a catene, sia quando mascherano dietro la nominazione dell’amore la forza di una costrizione psicologica continuamente ribadita, sia quando, attraverso la sacralizzazione dei maestri e il controcanto dei discepoli, trasmettono ideologie che sono vincoli mentali anziché criteri interpretativi della realtà (si veda, in L’assedio di Costantinopoli: «In nero logoro, / le mani un po’ lunari / aggrappato al suo bastone, / il vecchio il santo / il maestro di pensiero / attorniato dalla corte / di muti maggiordomi / di prelati che / gli fanno il controcanto»), sia quando attraverso la famiglia e la scuola cercano di inculcare, con la ripetizione di monotone litanie, rituali comportamentali e vuote consuetudini spacciate per valori.

Gli interni in cui si muovono gli anonimi protagonisti di queste poesie costituiscono una sorta di prolungamento della loro condizione di cattività interiore. Casa «bunker, fortilizio, labirinto decoroso» si cita in exergon a Fu vera gloria?, titolo e premessa di minuziose descrizioni di stanze, che scandiscono, interrompono e legano situazioni, pensieri e dialoghi: piccoli appartamenti ingombri dei mobili e della paccottiglia del benessere piccoloborghese, stretti camminamenti tra tavoli che occupano l’intera stanza e grossi armadi alle pareti, frigoriferi che occupano un terzo dell’uscio, stili inglesi e chippendale, fiocchi e stampe alle pareti per coprire muri scrostati, libri dietro le tende. Nelle scuole, invece, dominano l’oscurità e la polvere, in locali lunghi e stretti, dai muri crepati e i pavimenti sporchi.

La chiave per uscire dalle gabbie strette e soffocanti di questo conformismo, che dietro una definizione rigorosa dei modi di essere e di pensare cela l’incapacità di dare un senso alla vita, non può che essere la trasgressione. È necessario, però che questo termine sia inteso non nella riduttiva accezione comune di infrazione a una regola, ma nel senso etimologico più pieno di «passaggio attraverso», di «uscita da e ingresso in». È una serie di trasgressioni di questo genere a scandire un percorso che parte  dall’ingresso nel proprio corpo attuato dall’adolescente del primo poemetto Malaria mediante la trasgressione di una morale sessuale finalizzata ad inibire una componente fondamentale della conoscenza di sé e dell’altro da sé, per arrivare, attraverso spostamenti successivi, ad estraniarsene, ad uscirne, come avviene nell’ultimo poemetto, significativamente intitolato All’infuori del corpo, mediante una trasgressione della razionalità intesa come principio ordinatore e unificante di una conoscenza solo apparente. È all’interno di questa logica, in cui formalmente tutto si tiene, che la poesia di Ruffilli scava, facendo leva sui deboli incastri del puzzle per smontarlo e riaccostarne in modo casuale e disordinato i tasselli. «…da dove saltano / fuori, i sogni, / vesti e contorni / al mostro, alla pazzia: / frullati, puzzle con / i tasselli fuori posto, / come uccelli colorati / o pipistrelli / staccatisi di colpo / dall’albero blu inchiostro» (Malaria).

Nei sei poemetti un esile filo conduttore, continuamente spezzato e riannodato, collega brevi strofe che frantumano e isolano, sovrappongono e riprendono situazioni e livelli di comunicazione diversi tra loro. Ogni strofa è un tassello di puzzle, espunto dal suo contesto e accostato a tasselli di altri contesti. Rapidissime alternano e frullano insieme battute di dialoghi tra personaggi anonimi, descrizioni dei loro stati d’animo o delle situazioni in cui si trovano, pensieri o sogni espressi in prima persona da uno di essi, monologhi interiori, schizzi d’ambiente, riflessioni di carattere generale, filastrocche, slogan, corsivi, parentesi. Il tutto con una levità in cui si fondono il ritmo breve dei versi, spesso sincopato da enjambements sintattici, la loro facile musicalità di rime, rimealmezzo, assonanze, reiterate in qualche caso fino al momento della dissonanza, nel cui tessuto si aprono citazioni ritmiche palazzeschiane e melodie gozzaniane. Il poeta entra ed esce in continuazione: osserva dall’esterno una persona e si cala nel suo intimo dando voce ai suoi pensieri più reconditi o alle considerazioni che gli suggerisce la situazione in cui si trova: fa parlare un altro di sé, ma, con una sorta di sdoppiamento, in terza persona; si intromette per dire la sua; frantuma l’unità di tempo e di luogo con frequenti andate e ritorni; sovrappone l’universale al definito, l’accaduto al sognato, le aspirazioni individuali ai vincoli comportamentali del ruolo sociale, aliena la sua sensibilità in altri ed esprime in prima persona quella altrui.

Da questo magma non controllabile razionalmente prendono forma cinque allegorie: l’Adolescenza, la Persona, l’Amore, l’Ideologia, l’Educazione. Fitte di simboli e collegate tra loro dalla riproposizione di elementi comuni, si risolvono insieme in una raffigurazione finale in cui la poesia perde ogni sua pur stravolta connotazione spazio-temporale e si confronta senza mediazioni con l’assenza di ragioni ultime. In essa tutte le tensioni accumulate nei cinque poemetti precedenti, un ribollire sordo e profondo che increspava a tratti la calma forzosa della superficie, trovano soluzione. I cantati al Padre, alla Madre, alla Vita – l’allegoria dell’Educazione di Prodotti Notevoli – che si chiudevano con un rassicurante: « ‘Sa, il programma… / C’è un piano superiore./ Niente nasce da niente’», pronunciato da un adulto, insegnante o genitore, nei confronti di un giovane, trovano la loro eco nelle prime strofe di All’infuori del corpo: « ‘Sarebbe, quindi, / tutto un grande errore’. ‘Non so se un caso o / un piano superiore. Ma, / certo, nel difetto e / nel dolore’. // L’ignoto arretra / un passo e avanza / all’infinito». La ricerca della propria identità/differenza dall’altro di Malaria si annulla in un: «Dentro lo spazio / di teoria, / identità (la mia?) / risultanza / quasi d’anagrafe». Il perbenismo e la fissità dei ruoli piccolo-borghesi parodiati in Fu vera gloria? Assumono netti contorni di finzione scenica: «(Uniti, ancora / e sempre, sulla scena / che si avvera. / È dal dottore / con cui tradisce / suo marito. / È la cameriera / con cui se l’intende / quando è uscita / la signora. / Incline, lui, e / pronta, lei, insieme / a recitare la commedia)». E così le catene di Per amore o per forza diventano paradigmatiche; la ricerca di criteri interpretativi approda alla scoperta dell’eterno ritorno dell’uguale, alla relatività della conoscenza, ai limiti della libertà individuale, alla noia, alla percezione della decomposizione, al vuoto. «All’improvviso, l’idea / di un vuoto, senza moto, / del nulla, dell’assenza / di un segno o di una traccia, / agghiaccia il sangue e / fa tremare mani e voce».
Ma se è vero che «il più alto grado di presenza è l’assenza», come avverte Ruffilli citando da Benjamin, e la trasgressione è condizione necessaria dell’autenticità, allora la verità provvisoria che egli attinge al termine di Piccola colazione resta sottoposta alla tensione di questi due poli, proiettata in avanti, tappa, non meta.

MAURIZIO PALLANTE in “Il Lettore di provincia,” nr. 73, dicembre 1988

 


NELLA CAMERA OSCURA DI RUFFILLI

Se ne sta rintanato lì, nell’angolo più chiaro d’un buio troppo buio perché davvero possa esserci, un angolo chiaro. Se ne sta nascosto lì, tra le rughe meno visibili d’un volto troppo vecchio perché possano esserci davvero, rughe meno visibili. Se ne sta rintanato e nascosto ma ci mette un niente a balzarti addosso, il senso ultimo dell’uomo, mentre leggi o anche solo sfogli Camera oscura di Paolo Ruffilli (Garzanti, 1992), libro che è testimonianza, presa di coscienza e cronistoria privatissima e universale al tempo stesso. Una quarantina di poesie tutte legate e interconnesse, organiche l’una all’altra, disposte secondo un gusto, per dir così, lirico-architettonico, che si fanno leggere come un unico pometto scomposto, compatto e frammentato com’è compatta e frammentata la memoria, questo misterioso meccanismo tutto umano che scompiglia l’ordine naturale del tempo e della storia. Ed è proprio lei, allora, la memoria, il punto di partenza e d’arrivo della ricerca poetica di Ruffilli, in questa tappa del suo percorso (un percorso, tra l’altro, di rara e invidiabile coerenza: sono davvero pochi, tra i contemporanei, gli autori per cui è giusto e indispensabile utilizzare il termine "opera" inteso come corpus ben connotato, di volta in volta riaggiornato, ritrattato, aperto e liquido ma sempre autocentrato e riconoscibilissimo, e Ruffilli è uno di questi): Camera oscura sin dai primi versi («la cifra data / e persa, misteriosa, / di un essere a cavallo, dentro e / fuori…»), infatti, sembra voler scandagliare i meccanismi non solo evocativi, ma proprio puntualmente produttivi, creativi e ri-creativi del ricordo. Ricordo e memoria, però, che Ruffilli non mette solo, banalmente, al centro della propria scrittura, no: col pretesto (autentico) dell’io-autore che sfoglia l’album di famiglia, ricordo e memoria sono qui lo stimolo, la sollecitazione alla scrittura, non solamente la materia che il poeta plasma e addomestica in canzone (termine che, a prima vista, sembrerebbe inappropriato per la dizione franta di Ruffilli, ma che in realtà è chiave: si leggano ad alta voce i suoi versi e ci si lasci trasportare dalla loro nascosta melodia, pudica nel non farsi percepire assecondando inarcature e enjambements che più che fratture sono il loro opposto – ambizione di giuntura, gancio e mano tesa sul ciglio del burrone: «…un segno / il dato, ma non / memoria o nostalgia, di ciò che è stato. / Amato o non amato / comunque, sconosciuto. / Perduto totalmente, / caduto dentro / il suo finire in / quello stesso / essere fissato / prima di perire»). Come in certi, patafisici esercizi da "OuLiPo", ma senza la vanità né l’autocompiacimento di quel gruppo di comunque autorevoli giullari dello stile, infatti, Ruffilli sembra concepire, qui, la memoria anche come vincolo alla propria scrittura, il ricordo come limite alla propria immaginazione, perché mente e penna si potenzino e trovino strade, pertugi artistico-espressivi inediti e inauditi attraverso i quali (provare a) cogliere un’essenza. L’oggetto fotografia, allora, qui, carico pure di qualcosa di mistico-evocativo quasi fosse reliquia parlante, umanissimo manufatto scovato chissà dove, assume davvero il valore-limite di un divieto, di un cartello che, ingiungendo di non-oltrepassare, dà invece lo slancio per saltare definitivamente al di là: «(Io, di sei anni, / credo. Distratto, ma / non troppo, dal gioco / al tavolino con i / tasselli dell’alfabetario…) // La parola, per me/ veniva da distante. / Un a priori, quasi, / l’avvertivo. Un eccitante. / In un processo in / qualche modo inverso…». Come s’intuisce da questi versi, Camera oscura è anche un libro pieno di tenerezza: una tenerezza mai blanda, sempre autentica, tenerezza che sa di essere, spesso, molto più di ’amore’, se i volti e i corpi cui si tende, ancora e ancora oltre il limite del tempo, hanno la consistenza insieme vivida e evanescente delle ombre dantesche: «(Ride mia madre / rovesciando il viso, / e muove appena / i capelli ondulati / sulla schiena. / Il giovane magro, / oltre lei levando / pensoso lo sguardo, / sta come incerto / di un sorriso. / Nella tiepida sera / che si indovina)». Una tenerezza, sì, e una bellezza, s’intuisce già anche questo, che è la stessa delle tenebre. Non c’è verso di Camera oscura in cui non serpeggi un che d’oscuro, un che forse di indicibile che ha a che fare con l’origine di tutti noi – quel "senso ultimo dell’uomo" di cui s’è scritto in apertura e che è, allora, in realtà, il senso primo d’ogni umano: un trauma astorico, universale, che Ruffilli non nomina mai, ma che, parlando solo di legami privatissimi, riesce a far emergere, «attratto / dalla logica per cui / le cose belle / devono far male».

SACHA PIERSANTI http://www.italian-poetry.org/2021/07/15/7302/

 

SILLABAZIONE FONICA
Lo scatto delle prospettive diacroniche, i sedimenti del mito affioranti da un koinè culturale ineludibile, i brandelli d’insigni formulazioni di poesia antica, e insieme le presenti realtà del paesaggio e degli uomini che lo interpungono – vecchie miserabili rughe o spettrali vittime brancolanti – danno qui alla dilatata luce greca, ai campi marini, ai toponimi illustri il colore e il sapore d’una desolazione esemplare. La frana dell’uomo e del mondo è, al di là delle misure temporali e spaziali, ma s’individua in puntuali riscontri allusivi e visivi. I tenaci ammanti del classicismo, corrosi a tratti da truci graffi di scherno o ribaltati in spechi aggriccianti, cedono a un’esperienza scabra, la cui autenticità trascende scontate eversioni polemiche, ponendosi con la diretta impavidità d’una testimonianza necessitata.

La denunciata umiltà dell’approccio non esclude il piglio rigoroso dell’autocoscienza, l’autonomo spicco d’un’originalità senza confronti vistosi nell’intensa qualità delle emozioni e nelle tonalità e torniture dei modi. Così la testimonianza, esistenzialmente e linguisticamente determinata, varca l’ambito odierno dell’operazione lirica, assumendo un volto di profetica perennità, mentre nel volto della Grecia s’incarna la disfatta eroica, la cupa persistenza della vanità corposa, della saggia follia, dello squallore imponente, della parola precaria e assoluta. Permeazione d’oggetto e soggetto, e insieme di poesia "donata" e poesia "calcolata".

Il materiale lessicale è granito di sostrati culturali; la sintassi è qua e là violentata in genitivi ardimentosi o nella catacresi delle reggenze o dei "generi" del verbo. Eluso in frantumazioni l’elemento canto, il discorso conosce qualche secca e stridore; l’aggettivazione, assai ricca, ha una pertinenza rivelatrice, e la scansione ungarettiana si pone come una istanza di sillabazione fonica.

Questa lettura della Grecia e dell’uomo incute rispetto. Smuove voci impietrate, pensieri insepolti, ipotesi immortali. Grazie.

FILIPPO MARIA PONTANI in La quercia delle gazze, Forum Quinta Generazione, Forlì 1972


FEDELE A SE STESSO

Paolo Ruffilli è uno di quei poeti di cui ci si accorge poco a poco ma inevitabilmente, perché non appartengono ad alcuna scuola, attraversano la storia delle forme e dei linguaggi con l’unica preoccupazione di restare fedeli alla propria petite musique, e paiono dunque operare ai margini di un mondo letterario che da sempre – nell’ultimo secolo – ha invece privilegiato la via battagliera e chiassosa delle poetiche e dei manifesti. A chi continua a pensarla in questo modo, bisognerebbe forse far notare come i poeti maggiori del secondo Novecento – da Bertolucci a Caproni a Betocchi – abbiano sempre seguito strade marginali rispetto ai vistosi dibattiti dei convegni e delle riviste. E fedele a se stesso, fin dall’esordio di Piccola colazione (1987), Ruffilli è sempre stato fedele alla sua narratività quasi nascosta, tutta concentrata nella forza poetica ed essenziale di una voce, ma anche a una lingua che giustamente è stata definita più volte « semplice », ma di quella semplicità che è una scelta espressiva, non ha nulla di ingenuo, e molto deve alle predilezioni letterarie dell’autore, che incorporano, in una dimensione di estrema libertà e curiosità (dai metafisici inglesi alla lirica cinese, dalle Operette morali di Leopardi alle Confessioni del Nievo, per restare ai testi da Ruffilli curati nel corso di questi anni) anche il Settecento dell’opera buffa e delle commedie goldoniane: un altro mondo, non v’è dubbio, rispetto al greve Ottocento romantico-decadente che costituisce in genere una sorta di fondo comune, di immaginario collettivo della letteratura novecentesca. Annotava Mengaldo, nella prefazione a La gioia e il lutto, a proposito della lingua poetica di Ruffilli : « dominano i versi brevi o medi, con centro nel ventaglio tra quinario e settenario, ma la loro funzione, contro le apparenze, è del tutto antimelodica ; […] Non molto diverso, a guardar bene, l’uso della rima, che essendo fitta e dichiaratamente “facile” non ha, in linea di massima, un ruolo espressivo, raggrumante, ma – se così si può dire – di “appoggio” alla dizione e quasi di punteggiatura ». Osservazioni che varranno anche per queste Stanze del cielo, dove semmai si potrebbe aggiungere come le singole sequenze siano in genere più brevi e concentrate rispetto al libro precedente, e come la rima (talvolta al mezzo o nascosta) svolga spesso la funzione di chiudere quasi circolarmente il movimento del pensiero. Con effetti che Giuliani, con felice intuito, assimila a una « musica elegante e rarefatta […] tra Béla Bartók e il cool jazz ». Iniziare un discorso sulla poesia di Ruffilli dai dati formali è quasi una via obbligata, non solo per l’originalità e l’atipicità delle scelte espressive, ma anche perché si tratta di scelte che paiono contrastare con la densità e la drammaticità dei temi, che, per restare agli ultimi due libri, sono la morte di un giovane per Aids ne La gioia e il lutto (Passione e morte per Aids, recita il sottotitolo del libro) e l’universo concentrazionario della prigione e della droga ne Le stanze del cielo. In realtà chiarezza e facilità servono proprio a dar risalto allo strazio delle vicende, a rendere più limpida la sequenza dei pensieri, e soprattutto ad evitare derive emotive: tutto, nella poesia di Ruffilli, resta sul piano nobile di un pensiero lucido ed eloquente, il cui corrispettivo – azzardo – andrebbe forse visto nei grandi melodrammi metastasiani, dove ogni passione e ogni vicenda sono ordinate in una sorta di cartesiano catalogo delle emozioni e degli affetti, e si fanno quasi gioia dell’intelletto, raffinata finzione in cui nondimeno riusciamo luminosamente a cogliere le oscure trame del cuore e della mente. Il libro è ordinato in due sezioni, affidate ciascuna a una voce monologante: un carcerato nella prima (Le stanze del cielo), un tossicodipendente nella seconda (La sete, il desiderio), entrambi espropriati di un cielo (pp. 64, 81), rinchiusi in una cella vera o nella cella ancor più buia del proprio delirio. Ruffilli evita, saggiamente, ogni implicazione sociale, concentrandosi sull’universo ossessivo di chi vive la propria sofferenza, e giungendo ad esiti sempre brucianti di verità esistenziale, come in questo Sogno del prigioniero (« Resto libero / solo le ore della notte / finché dura il buio / dentro agli occhi. / Esco solo così / a incontrare gli ex amici / che nel caffè / giocano a carte, / e vado poi a vedere / mia madre / che rimette a posto / la cucina / e fa mangiare il gatto. / E ogni volta, / rientrato in sogno / a casa mia, / è peggio / per tornare via » ; p. 32) o in questa Notte di drogato, ricca di echi di tante notti – anche mistiche – della poesia cinque-secentesca (« O notte mia diversa / da tutte le altre / notti al mondo, / notte eternamente / luminosa / nella sua chiusa / fulminante assenza, / canto e armonia / che alita dentro / il tuo silenzio, / respiro che si tende / e gonfia all’infinito : / l’essere intero / non più diminuito, / l’abisso inabissato / riempito dal suo crollo » ; p. 75). Né il movimento chiaro e argomentato dei pensieri impedisce di cogliere il senso di mistero che appartiene a ogni vita umana, al contrario lo illumina dall’interno, conferendogli precisione di contorni, luminosità di visione. Mistero, non a caso, è termine che ricorre nei titoli di entrambe le sezioni, e in due delle poesie più intense e commoventi del libro : « Non so spiegare / neppure con me stesso / come possa restare / un animo infantile / all’io di adesso / dentro il suo delitto / e che ostinato / continui a alimentare / dentro la colpa / degli atti suoi di ieri / i sogni, i propositi, / i pensieri… » (Mistero, p. 65) ; « Ecco che ditta dentro / la voce oscura / e ti cancella il cielo, / la via e la casa / in cui hai vissuto, / il viso dei tuoi cari… / Ma c’è un abisso / tra quello che promette / e ciò che dà davvero : / una voragine che non si può riempire, / che ti sottrae in partenza / quanto ti ha promesso. / Eppure già sapendolo / tu ti ci butti dentro / fino in fondo / e quello è il baratro / del tuo mistero. / Fuori dal mondo » (Il tuo mistero, p. 81). Una poesia, quella di Ruffilli, che ha anche il pregio – così raro oggi – della leggibilità : una leggibilità che nasce dalla musica del verso (cui il poeta non rinuncia mai) e dalla profondità verticale, intermittente, angosciosa delle voci, dal loro strazio autentico, dal sentimento di pietà e di umanità che comunicano.

GIANCARLO PONTIGGIA in “Testo”, 58, Anno XXX • luglio-dicembre 2009, Fabrizio Serra Editore, Pisa

 

LA FELICITÀ DI UNA SOLUZIONE
La parola colazione ha una storia curiosa. Nei monasteri benedettini si usava leggere le Collationes Patrum di Cassiano prima della compieta e si cominciò a chiamare collatio, per contiguità temporale, il pasto leggero che le seguiva e le rendeva probabilmente più appetibili. L’origine di questo slittamento di significato, che i linguisti chiamano metonimia, l’avevo scoperta più di vent’anni fa, leggendo un libro di Stephen Ullmann dedicato alla semantica, e da allora non l’ho più dimenticata. Mi colpiva l’associazione tra frati e cibo, tra lettura e digestione, anche se, a ripensarci, è meno singolare di quanto mi apparisse. Ma c’era, in questa metamorfosi dell’uso, una sorta di infrazione linguistica, di trasgressione lessicale, di disponibilità ambigua, che accompagna come un destino la parola anche nel suo impiego moderno. Colazione è il primo pasto della mattina, ma può essere, ci informa il Lessico Universale Italiano, la leggera refezione serale di un giorno di digiuno; può diventare un pranzo misurato di mezzogiorno, ma non le viene negata l’eventualità di essere "lauta". I linguisti sembrano accordare con riluttanza questa estensione del significato, amanti come sono, in genere, di una dieta puristica: ma l’uso e la gola trasformano le tentazioni in diritti e del resto, come diceva Pietro Verri, se il mondo dipendesse dai grammatici scriveremmo carrozza con due erre, ma andremmo a piedi.
Nel titolo di questa raccolta Paolo Ruffilli la parola colazione si accompagna a un aggettivo, "piccola", che dovrebbe, circoscrivendo il significato, eliminare l’ambiguità e che invece, secondo la strategia fintamente riduttiva dell’autore, non fa che aumentarla. In italiano piccola colazione appare come un calco immaginario di petit déjeuner: in fondo è una espressione che non esiste. Che poi taluni albergatori sostituiscano la prima colazione con la piccola rientra in quelle invenzioni che trovano nell’ignoranza il terreno più fertile e, diciamo pure, provvidenziale. Ci si rammarica che la tradizione abbia una memoria intermittente, quando non malferma: ma quale mostruosità diventerebbe se ricordasse tutto?
Dunque piccola colazione è un prestito allusivo, una nuova infrazione dissimulata, una trasgressione accattivante e sorniona perfettamente in linea con i sei poemetti che formano la raccolta. Io credo nell’enigma trasparente dei titoli, quando, come nel caso di Ruffilli, siano il compimento di un lavoro di anni e suggellino la maturità espressiva di un’opera. E infatti questo mondo poetico è gremito di piccole infrazioni e trasgressioni, che rientrano apparentemente nella norma e invece minano il significato e i fondamenti.

Le prime infrazioni sessuali di Malaria, che scoprono l’altro se stesso nello specchio, non sono tanto l’iniziazione, trepidante e goffa, all’autoerotismo - come se l’erotismo potesse fare a meno del prefisso - quanto le prime infrazioni linguistiche delle parolacce, sfida spericolata alla autorità ("Intanto, dappertutto/ Dio ti vede").
E le prime trasgressioni coniugali di Fu vera gloria?, compiute nel luogo più sicuro - in casa - portano, più che all’adulterio, a un diventare adulto, ovvero a crescere, secondo l’etimologia della parola. Non la crescita di cui si favoleggia nelle interviste - non si fa che crescere, che cosa faremo da grandi? - ma quella della propria controfigura, sempre più accorta e elusiva: "Riservato e un po’ introverso/ inappuntabile, a vederlo,/ ossequiente di ogni autorità./ Lui che risponde serio:/ "Ma si figuri, per carità"./ Elegante, sì, e gentile/ molto discreto sempre/ accolto ovunque con favore./ Sia pure ma… lontano/ fuori scena, lui si sente,/ neppure poi in agguato/ e più in difesa, quasi/ del tutto assente".
Per amore o per forza prefigura, già nel titolo, il tipo di alternative che la passione concede all’amante: e i dialoghetti che interrompono, con inserzioni di iperrealismo, la convenzione degli sfondi piccolo-borghesi ricompongono, più che lacerare, quel tessuto di menzogne con cui la sincerità cerca di esprimersi.
L’assedio di Costantinopoli introduce le distorsioni ottiche di un cannocchiale alla rovescia, avvicinando la realtà solo per rimpicciolire, attraverso un confronto con la storia, le turbe collettive. E Prodotti notevoli introduce a quel mondo di litanie superstiziose che è diventata la scuola. Né manca, tra quinte fatiscenti e fondali di polvere, l’invocazione al padre, liturgia domestica che non si sa se propiziatoria o esecratoria: "Padre potente/ arbitrio comando/ signore che prende/ che regge le fila/ che muove e sostiene/ dominio e licenza./ Padre che è assente/ sole lontano/ ignoto mestiere/ enigma che incalza/ diverso e straniero/ limine termine fine./ Padre splendente/ pensato e sognato/ tenuto soltanto per mano/ guerriero tornato/ per poco disposto a restare/ giocare parlare una volta/ babbo papà".
Ma All’infuori del corpo, che impone alla persona amata riti rassicuranti, svela crepe più sinistre e temibili: "è la cancellazione/ progressiva delle/ presenze care e note,/ il conto che comincia/ a non tornare. Il/ margine sempre più/ sottile, man mano/ che si fanno falle/ e vuoti tra le file".
Per costruire questo romanzo di formazione autoironico questa commedia in sei atti Ruffilli ricorre a metri tra Metastasio e Gozzano, ad ariette di una musicalità incalzante e insieme dimessa, che scandiscono i punti nodali del processo di maturazione: il culmine, lo sappiamo, è la rassegnazione all’evidenza, Che in questo caso è "Necessità di presidiare/ un fianco, con la/ conseguenza di/ tenere senza essere/ disposti per intero/ ad aderire. E, poi,/ il peso scettico/ di fronte all’evidenza/ che ti assale, che/ comunque e sempre/ tutto sia destinato/ a finir male". E i versi che chiudono la raccolta chiudono anche l’accesso a ogni alibi (altrove) consolatorio: "Eppure, intanto,/ arresi all’evidenza/ di andare navigando/ alla deriva".
Rapido, lieve, ironico Ruffilli ha una grazia compositiva che sa fondere in sequenze unitarie dialoghi, racconto, immagini. Eppure, grazie alla orchestrazione dei ritmi, alla variazione dei toni, ai cambiamenti di andatura, le sequenze rivelano una natura musicale, una trasparenza lirica. E proprio attraverso la convergenza delle scelte espressive Ruffilli offre al problema dei generi non una nuova incognita, ma la felicità di una soluzione.

GIUSEPPE PONTIGGIA in Piccola colazione, Garzanti, 1987

REPERTO DEL DOLORE
La bella citazione da Roland Barthes che Ruffilli ha posto a epigrafe di questo libro può indurre (e, per quanto mi riguarda, mi ha fuggevolmente indotto) a un curioso errore "ottico". Per qualche istante, ho supposto che il titolo del libro di Ruffilli derivasse, per rovesciamento, da quello del libro di Barthes da cui la citazione è tratta: Camera oscura, cioè, al posto di La camera chiara. Naturalmente, la ragione non ha tardato a correggere l’errore: non era affatto così: è il titolo di Barthes a ribaltare qualcosa, precisamente un’espressione corrente, mentre quella di Ruffilli la raddrizza e la reintegra, quell’espressione, nella norma semantica (anche se, beninteso, non senza un suo alone di ambiguità, di sensi ulteriori).
Rimane, dunque, la citazione in quanto tale, la portata reale della frase di Barthes che Ruffilli ha ritagliato e idealmente incorniciata quale monito a se stesso e ai lettori. E, in essa, salta subito all’occhio la gravità e la pregnanza di questo avvertimento: "Per voi, non sarebbe altro che una foto indifferente (…) per voi, in essa, non ci sarebbe nessuna ferita."
Il riferimento è tanto esplicito quanto illuminante, sottilmente illuminante. La camera oscura è, infatti, la paziente, minuziosa ricostruzione di un romanzo famigliare a partire dai "segni", dai "dati" (sono parole che trovo nel testo) costituiti da un insieme - forse uno o più album - di vecchie fotografie. Non importa, qui, dire di quale romanzo si tratti; già l’espressione "romanzo famigliare" allude, lo si voglia o no, a un groviglio di pietas e crudeltà, sprofondamento e distacco, che è comunque, appunto, un intrico, un "intreccio", a prescindere dai modi, dai nodi materiali della vicenda. Quel che importa, mi sembra, è invece suggerire quale sia l’ampiezza dello spettro, del campo espressivo dentro il quale, e attraverso il quale, l’indagine si fa partitura, la ricostruzione poema; un’indagine che si misura proprio, a mio avviso, dalla divaricazione fra la "ferita" cui Barthes (e Ruffilli tramite Barthes) si riferisce per negare l’estensibilità ad altri che al soggetto, alla prima persona, e la scelta di neutralità, di oggettività, di secchezza che appare, a prima vista, come la tonalità dominante del testo di Ruffilli. Voglio dire che la traiettoria del gesto espressivo compreso in queste pagine - e di cui, simmetricamente, queste pagine sono la dilatazione, il "corpo" - va dal riconoscimento, dall’accertamento della ferita, qualunque essa sia (e prima ancora dalla sua ricerca, anzi dalla ricerca del corpo che l’ha inferta), alla sua cicatrizzazione simbolica, al rito del suo disseccamento nella pratica del linguaggio.
Ma in una poesia, si sa, il tempo non esiste , o meglio non esiste la "freccia" del tempo, la sua irreversibilità, cosi come non esiste nei sogni; ed ecco, allora, che la traiettoria appena descritta può essere vista (anzi, è senz’altro vista nella realtà della lettura) anche nel senso opposto, cioè secondo la direzione che porta dalla cicatrizzazione della ferita alla scoperta della ferita, dalla normalizzazione del dolore al suo avvento. (In ogni testo poetico, del resto, l’invenzione della croce è al tempo stesso il punto d’arrivo e il punto di partenza di ogni possibile metafora della passione.)
Un discreto conoscitore della poesia italiana di questo secolo non tarderà a riconoscere nei versi di Ruffilli la continuità di una nobile tradizione, fatta di povertà raffinata, di musica contratta, sino al limite estremo dell’udibilità, che ha il suo riferimento più alto nella poesia di Giorgio Caproni; e penserà, allora, a certe tangenze anche tematiche fra il romanzo famigliare presente nella Camera oscura e l’indimenticabile romanzo di Annina nel Seme del piangere. Ma altrettanto facile, e certo doveroso, sarà avvertire come Ruffilli operi sulla sua materia verbale e sentimentale con una sorta di tenacia e impassibilità "scientifica" che non è di Carponi e rispetto alla quale la fissità propria dell’immagine fotografica costituisce, insieme, un "movente" e un correlativo formale.
Più di queste divagazioni araldiche, tuttavia, conta l’in sé del lavoro di Ruffilli, la sua interna e ossessiva coerenza. Credo che Ruffilli abbia molte ragioni, e certamente tutti i diritti, di rivendicare come centro della sua ricerca, per citare un suo frammento, "il dato, ma non/memoria o nostalgia". Il dato, il segno, certamente - resi, nella pronuncia, quasi minerali, come reperti fossili di un’altra era, l’era antichissima o futura del dolore.

GIOVANNI RABONI
in Camera oscura, Garzanti, 1992


PAOLO RUFFILLI E LA CRISI DELLA MEMORIA
La terza raccolta poetica di Paolo Ruffilli (Notizie dalle Esperidi, Editrice Forum, Forlì 1976, pp. 90, lire 2000) nasce "in economia ": voglio dire che si genera al culmine, o ad un punto comunque assai avanzato, di un procedimento teso a distruggere precedenti – e necessarie – impalcature retoriche, nell’accezione specifica del termine, senza che una controretorica si profili, per scelta, a surrogare quella di cui si attesta la cancellazione (o quanto meno la consumazione). Perfino il titolo, Notizie dalle Esperidi potrà apparire a qualcuno indicativo di questa nuova mira, accoppiando nel proprio sintagma felice una entità mitica – con la quale si era già caparbiamente incontrato e scontrato quasi programmaticamente il libro di esordio, La quercia delle gazze, del 1972 – e la distruzione di quel medesimo luogo di riferimento favoloso (le Esperidi, s’intende) attraverso l’uso della "notizia", o meglio di montaliane "notizie", che certifica l’avvenuta visitazione della sede e pertanto la sua irrevocabile, ormai, vanificazione: insomma la perdita, o l’usura, di un "senso" dato e convenzionale.

Ma non vorremmo attribuire ad un titolo valori più ampi di quelli occasionali che non di rado un titolo assume e detiene, sgorgando, come può accadere, anche casuale (ancorché, nel profondo, non si dia poi gratuità alcuna). Osserviamo piuttosto come vengano a ripartirsi le Notizie fornite da Ruffilli: tra un proemio e una clausola di esemplare asciuttezza ambedue – e a mio parere, anzi, sono i luoghi eccellenti dell’intero complesso, per quanto concerne il modello di pronuncia melodica – scorrono quattro sezioni a prima vista diseguali per temi e per vastità, per timbri e preoccupazioni, però di fatto riducibili a un denominatore comune che risulta essere il principio (l’ordine) di mortalità, quando non di morte tout court.

Il libro è infatti un repertorio di epigrafi, espresse o implicite. Sappiamo bene come esista anche una retorica dell’epigrafe, una sorta di sottogenere pesante, fastidioso. Ma l’epigrafia di Ruffilli, si volga a commentare il vissuto ancestrale familiare oppure altre avventure affettive di cui l’io si offre a ravvicinato protagonista; o si tratti ancora della suite sepolcrale d’epilogo dove le figure non pertengono al novero dell’esperienza personale dell’io -, questa intenzione e intonazione d’epigrafe in Ruffilli sgretola d’istinto prima ancora che per convincimento e per calcolo, le regole della commemorazione in ogni luogo del suo nuovo libro. E se qualcuno ha osservato in precedenza che questo giovane scrittore muove – non isolato in quest’impresa, d’altronde – un ipotesi di poesia che viene a contendere con se stessa, ininterrottamente, oltreché con la Poesia come categoriale nozione, da parte nostra vorremo far proseguire quel concetto suggerendo che le Notizie dalle Esperidi contestano un ruolo alla poesia abituale in quanto mirano a sommergere, nel corpo della poesia, la preminenza che vi ha goduto la memoria.

Se l’ultima raccolta di Ruffilli mostra – come nostra – una sua netta originalità, essa si rivela, meglio che nella forme o nei registri sonori pur sempre esperti, nella tenacia con cui a combattere la tradizionale reggenza della memoria il poeta non convoca occasioni e incontri se non memoriali.

In una parola: gli oggetti del ricordo salgono (dalla sfera del ricordo) a dichiarare sulla pagina la loro inutilità, la loro renitenza a venire adoprati tanto nell’uno che nell’altro dei sensi testimoniati in quest’ultima stagione letteraria in due importanti "album di famiglia" (di Lalla Romano e di Nelo Risi: in chiave fermamente commemorativa l’uno, in chiave di autoanalisi indiretta ed infine politica l’altro). Lo "stato di confusa situazione" denunciato ad apertura di libro da Ruffilli insieme alla "tentata relazione/ tra un oggi/ invano organizzato/ e quel che ieri ha teso/ ineludibile tracciato", il "il compromesso di parole/ vissuto e mai accettato" che si ripete nel testo d’epilogo dove risulterà tuttavia "sempre compromesso" anche il "momento, prassi della storia" poiché l’"agire" non viene accettato come "soluzione", tutto ciò sembra accreditare non soltanto l’impressione di una crisi della parte della memoria già concepita come inesauribile moto di spola fra due distinte sedi d’esperienza ma, più largamente, certifica la disfunzione dell’apparato normativo idea-segno-parola quale si enuncia a suggello della raccolta.

"Condizione è l’idea/ (l’oscuro punto di invenzione),/ strumento dell’idea il segno/ la parola": il timbro risuona addirittura reboriano, ma l’estrema praticità del dettato risponde invece, ora, ad una frustrazione della prassi, destituita dei suoi caratteri "esecutivi" rispetto al piano della dizione. Quell’"idea" che Rebora rinveniva "nelle faccende" ossia nell’azione, sessant’anni più tardi si converte nel ragionamento poetico di Ruffilli, in rinnovata dominante, nei cui riguardi non si prospetta un’autonomia del segno. Piuttosto, l’idea- condizione contestualmente annunciata provoca l’idea-segno, ma sempre tenendola sotto uno stretto controllo. A questo punto, e in una luce simile si chiarisce meglio ciò che proponevo all’inizio di questa nota parlando di economia, di sacrificio, di superamento della retorica.

Non si è espresso con questo, un giudizio di valore sulla raccolta di Ruffilli? Ebbene, quel giudizio per noi sta implicito, e assai positivamente, nel coraggio di tutte le rinunce che abbiamo elencate, e tanto più in quanto il poeta ha sostenuto – superandolo – anche il rischio maggiore, il rischio di una perdita di fisionomia, quando ha scelto di non orientare né verso l’idillio né verso la protesta il repertorio delle proprie o delle altrui (inservibili) memorie. Che queste Notizie dalle Esperidi sappiano mantenere al loro portatore, nonostante la qualità e la quantità dei suoi dinieghi, una fisionomia vitale, questo è un dato che non si dovrà attribuire solamente alla oggettiva forza traente della idea-condizione ma, in misura complementare, all’intelligenza sorprendente della scrittura che ha saputo gestirla lungo la traiettoria del libro e fino al suo rigoroso compimento.

SILVIO RAMAT in "La Fiera Letteraria", 30 gennaio 1977



IN UN SOFFIO
Leggendo le poesie di Paolo Ruffilli, mi è sempre sembrato di cogliervi, al fondo, la lezione di Ungaretti. E non mi riferisco tanto alla scansione ungarettiana come istanza di sillabazione fonica, che mi segnalava l’amico Filippo Maria Pontani inviandomi i primi versi di Ruffilli, quanto a quel rapporto tra cercare e trovare dentro il quale si muove l’insieme dell’opera ungarettiana.

Con questo voglio dire che mi è stato subito chiaro, fin dall’inizio (da quelle prime poesie apparentemente stilizzate), il tipo di coincidenza che mi portava a leggerle con adesione: la "parola trovata", appunto, e, insieme, "la zona del concreto, dell’immediatamente identificabile", come l’ha bene definita Giovanni Giudici nella presentazione del poemetto di Ruffilli, Prodotti notevoli, sull’ "Almanacco dello Specchio" mondadoriano n.9. E proprio questo incontro della parola trovata e dell’immediato concreto, che è la cifra della poesia di Ruffilli, è il senso vorrei dire attestato in evidenza dalla serie del Diario di Normandia.

L’ossessione dei minimi accadimenti, dei luoghi e delle circostanze, salvata dal progetto di un diario, che testimonia una vicenda al di là delle apparenze e delle abitudini; e la sua dinamica, consegnata a una scansione breve, dal timbro lieve, frutto del più raffinato artificio. In un soffio che, tra una battuta e l’altra, traduce la perplessità in distacco. Proprio come già al suo esordio, anche se in forme allora un po’ più secche; in quella Quercia delle gazze, che io continuo a considerare il passato poetico per molti aspetti straordinario di Ruffilli e le radici vere del suo lavoro presente.

VITTORIO SERENI in "MUSA", I, n. 4 (bimestrale) novembre-dicembre 1983, poi in Diario di Normandia, Amadeus, 1992

SUI "PREPARATIVI PER LA PARTENZA"
In ogni racconto a costituire il corpo del "debutto" narrativo di Paolo Ruffilli, si delinea una vettorialità oscillante tra il de/lirio (nell’accezione etimologica latina: uscire dal liro, dalla misura) onirico, quando la realtà nel suo spalancare le porte dei quotidiani Inferi si fa insostenibile, e il rientro forzato nella realtà stessa. Ma il referente dell’Io (non quello autorale, i cui autocompiacimenti sono, nel caso, evitati con rara maestria), il puro Io che va oltre categorie hegeliane, si chiede fino a che punto una realtà che si dà come acquisita sia epifania di tangibilità e substantia, o non sia "realtà" sussunta a categorizzazioni e a classificazioni di comodo. E dunque, come in una sorta di postulato scaturito da un sofferto esercizio gnoseologico, oltre che dall’esperienza, si afferma : "non esiste realtà se non quella che entra in noi" (pag. 9).
Ruffilli edifica un anti-poiein quale altissima prova di sintesi semantica, ontologica e, come detto, gnoseologica attraverso lo studio e la compenetrazione di talune attitudini e stati socio-esistenziali di varia umanità, sempre in oscillazione ambiguamente fascinosa tra realtà e fiction al punto di vanificare quasi (in un sapiente gioco di presenze e assenze) l’ingerenza dell’io narrante proposto comunque come spettatore di uno stato di deriva. Le personae di questo intreccio calibrato attraverso una scrittura limpida e manifestata in chiave apparentemente rievocativa per il tramite del dispositivo mnemonico in luogo di quello mitico-immaginale si lasciano sopravvivere in una sorta di limbo esistenziale fra misantropia e dialogo, paghe forse, ancorché un consistente sostrato di inquietudini permei come connettivo l’intero svolgersi del testo, di uno status quo che contempla un male di vivere di cui si intravedono i "vantaggi" secondari (come in ogni pathos/logica): "Non so se è stato un caso. O se fosse già scritto nel mio destino. Ma la considero la fortuna della mia vita - mi confessò stringendo la mano della moglie che gli porgeva la tazza di caffè - Mi ha sottratto al tormento e all’infelicità" (pag. 104) Qui, nel non raro ricorso al tema della scrittura e alla sua funzione, l’ironia formalmente "delicata" ma non per questo meno intrinsecamente feroce di Ruffilli, si manifesta nell’amara constatazione di quegli aspetti mondani, codificati e omologanti che in nome della facile fruibilità e della mercificazione proseguono implacabili nell’opera di impoverimento e distruzione dei linguaggi creativi, letterari e non.
Il lavoro del senso affonda, la seduzione dei significanti, in chiave concettuale percettiva affettiva, affiora come a rigenerare, declinandole in modo del tutto inusitato e fuori dalle pastoie in cui si arenarono le sperimentazioni basate sulla scrittura automatica, le istanze più profonde del pensiero surrealista proprio là dove l’architettura di Ruffilli sa spaziare con rara agilità fra sogno e realtà distruggendone, sempre col mezzo di enunciazioni… delicate, le tentazioni di autoreferenzialità.
Tutto ciò chiamando in causa la prima persona, l’Io narrante quale dato pre- testuale in prospettiva di una paziente quanto tenace opera di demolizione.
Significanti che nulla significano, quando alla parola è consentito di raggiungere il luogo utopico ove lo sradicamento da ogni sede o punto di riferimento (e nello svolgersi narrativo ogni indugio sul descrittivo è avaro, se non per poche calibrate pennellate quasi sempre in bianconero) obbligato diviene irreversibile. Impossibile, ormai, frenarne la spinta a varcare ogni confine, a spingersi sempre più oltre in un moto di incessante erramento. Verso regioni che nessun orizzonte può più contenere, e nessuna demarcazione racchiudere entro i termini di un territorio circoscritto una volta per tutte. "Si può fare tutto, ma avendo l’accortezza di non dimenticarsi che si tratta di una finzione" Così avverte, emblematicamente, l’anziana ex-spogliarellista protagonista del racconto "Schiava d’amore" dove, attraverso la rievocazione della potenza e degli slanci del’Eros (pur nella desolata constatazione della costrizione dei ruoli maschio/femmina ingabbiati nelle caselle precostituite del controllo sociale), si afferma ancor più l’esilio dal senso, dalla rassicurante dimora in cui la parola riluce, e si dà esodo verso oltre ed altro - senza Nostalgia - allora alla parola si dischiude l’altro versante. Dimissionaria dal Senso, essa si volge allo spazio del Neutro. Dall’Uno all’Altro.
Arrischiata nello spazio "mortale" del Neutro, la scrittura ormai fuoriuscita dall’ordine del Mondo si inerpica nel silenzioso versante della pagina. Un altro luogo emerge. Sul cui suolo la catastrofe celebra il suo festoso sacrificio: gaia scrittura del disastro.
Ruffilli evita di banalizzare in versione psicologistica ciò che i sensi avvertono e comunque, quand’anche si voglia con ipotetica chiusura vanificare la "funzionalità" di alcuni di essi, vi è sempre l’ancestrale sonorità del presagio ad avvertirci della polivalenza del concetto stesso di Realtà, se è vero che un’entità astratta segue la sua realizzazione cangiante, infine, in evento: "Si cancellano di colpo le distanze. Si annulla perfino il peso del corpo, in questo tramite globale… L’io governa il sogno di una presenza tentacolare. Dovunque, sempre più dentro." (pag. 29) Come a dire il confine (e fine) del Senso, e dunque dei limiti del linguaggio; ma anche introspezione centripeta di detti limiti evitando ogni compiacenza metalinguistica: il linguaggio che divora il senso, scrittura che diviene chiave di letio per una religio del mondo. E nulla è di ierofanico se si vuole dilatare il significato di religio. I piani enunciativi sono connessi al calarsi nel corpus della memoria al fine di rifondarne le archetipie passando attraverso il post-mito, e dunque la complementarietà fisiologica di un’origine. In questa fisicità dei preparativi che a nulla portano (Lo sbarco a Cythera è sempre rimandato: fortunatamente l’erranza non ha mai fine a malgrado dei "pericoli" che ogni iter presenta) vi è una rivisitazione spogliata da nostalgici accomodamenti per improbabili "età dell’oro", certo perché maggiormente peculiare all’oggettivazione profonda dell’atto scrivente/scritto quale elemento sinoetico fra memoria soggettiva e desiderio dell’essere, presagio e stupore primordiali, metaforizzazione del Reale.
A riprova di ciò, piace concludere citando il finale del racconto "Il mare ai monti", dove la voce interlocutrice così enuncia: "Stupito? - mi chiese a conclusione della sua storia - Da sempre, se lo ricordi, la superstizione governa le navi e guida i marinai".

MIRKO SERVETTI in ITALIALIBRI, gennaio 2004


IL CANTO DEL DISINCANTO
Paolo Ruffilli è un poeta solitario e solitaria è la sua poesia. E non solo nel senso, evidente, di una voce  e di un timbro originale e immediatamente riconoscibile, ma anche per una sua opzione di poetica che è al tempo stesso una scelta etica ed un progetto esistenziale.

Ruffilli indaga con la sua poesia, ma vorremmo dire, illumina, i margini, la periferia subliminale della realtà, una realtà fatta soprattutto di persone, di creature consegnate allo spazio estremo ed angusto della solitudine e del disincanto. Ma proprio da questo disincanto nasce il canto, “ la melodia sommessa e antilirica dal ritmo sincopato “ come scrive Alfredo Giuliani nell’introduzione a “ Le stanze del cielo” e che già era stata rilevata da Giuseppe Pontiggia, prefatore del primo libro di Ruffilli “Piccola colazione” edito da Garzanti nel 1987 e che gli valse l’American Poetry Prize.

Ruffilli si confronta in questo suo ultimo, struggente libro di versi con un mondo, quello dei carcerati e, nella seconda parte, quello dei tossico dipendenti. Ma dal fondo di quell’ inferno – un carcere reale ed uno simbolico ma non meno concreto nella sua deriva psichica e biologica – Ruffilli intesse la trama di un racconto che dà voce e corpo alla sfaccettata policromia della vita, la vita che parla con la sua voce più avvincente e convincente proprio là dove essa è ridotta agli anfratti del silenzio, confinata nello spasimo di una vicenda dove il Male è ontologia e storia, scelta e destino. Il coro di voci, dei detenuti e dei drogati che Ruffilli rappresenta come in un oratorio sacro e profano, dispone le icone del dolore entro uno spazio ed un tempo rarefatto sino all’ossessione, eppure lo sguardo della creatura dolente – ed è un dolore che fa pensare sia a Pascal che a Dostoevskij – non si rassegna al vuoto della speranza, alla proiezione, sogno o miraggio che sia,  dell’altrove, anche se, come scrive il poeta : “ forse anche il cielo / è fatto a stanze / e non si può abitarne / più di una.”

MARIO SPECCHIO
in “Terzo Millennio”, I, 1, luglio-settembre 2009

 

RIMA SUL CUORE
Nella continuità sostanziale del suo percorso, a dettare il tempo di un nuovo prima sono venuti libri come La gioia e il lutto o Le stanze del cielo e ora – appena uscito da Einaudi – ecco Affari di cuore. Paolo Ruffilli è poeta da libro piuttosto che da raccolta. Sua l’ambizione di trattare un tema, coglierne la fenomenologia, scavare nei doppifondi di un mistero che resiste all’interrogazione.


Il titolo è chiaro e indica esattamente ciò che significa, anche se poi la dinamica di quegli «affari» implica una lettura plurima dei tempi, dei modi, dei sottintesi, degli incroci, degli equivoci, delle attese, delle paure, delle ansie, delle prestazioni, delle delusioni, degli incontri, degli abbandoni. Qui c’è un io-amante-maschile che parla a una lei (di cui veniamo a sapere poco ma non pochissimo). E c’è quest’io-amante che ama, proclama, recrimina, inscena i movimenti dell’eros, si muove entro una storia che ha i suoi tempi, le sue strategie, i suoi apici, le sue diversioni, il suo scacco. A disegnarsi è la sproporzione dell’incontro, la subdola accoglienza del possesso, la precaria – effimera – violenza dell’impossibile unità.


Il classico terzetto lui lei l’altro (e magari un’altra)? Intanto non proprio, perché a essere disarmato è l’io che dice e non la lei di cui si riferisce. Ma poi, perché è la poesia (ossia ciò che conta) a fare la differenza. E la poesia passa qui attraverso una guerra feroce, attraverso versi sincopati, convulsi, spezzati, intrecciati a rime sapientemente semplici, ossia le più difficili. Una partitura di trama complessa che risponde all’esigenza di una possibile intercarnbiabilità: «E’ qui la soluzione / magari anche imprevista / cinica e crudele / fino a farti male,/ nell’ammissione / che la scena possa / mutare le comparse / e che si dicano / con uguale convinzione / le stesse cose / a più persone». Un testo esemplare.

GIOVANNI TESIO
in “La Stampa- Tuttolibri”, 05/11/2011

 



OSCURITÀ E CHIARORE, PAROLA E SILENZIO NELLA POESIA DI RUFFILLI

Di notte le cose paiono più chiare: è con l’oscurità infatti che si vede la luce, la riposata luce delle stelle occhieggia a notte calata.
E ancora, così come l’oscurità e la distanza rendono ciò che è chiaro chiaro a se stesso e ciò che è distaccato e reciso più unito e più prossimo alla nostra vista, così il silenzio fa della parola un arcipelago: sfibra da dentro l’interminabile verbosità e restituisce l’essenziale.
Camera oscura di Paolo Ruffilli è giocata palesemente sulla prima di queste varianti: oscurità-chiarore; più nascosta quasi invisibile, appare la seconda: la coppia silenzio-parola.

Camera oscura: come se l’oscurità rasentasse il chiarore, lo definisse, o meglio, lo tutelasse. Camera oscura: ambivalenza tra l’immediato venir alla mente del luogo in cui si sviluppano le foto e la metafora del lontano, del nascosto: una camera che è oscura per l’appunto ("…Per quanto rilevato/ in molti luoghi e/ aspetti, tanto/ più nascosto…. che vivere sia come/ scoprire qualcosa/ di interdetto/ e di proibito,/ che tutto nasca e/ cresca di nascosto,/ …").

Quanto io vedo sono delle foto: altro non vedo. Nella parte prima di ogni componimento è dimostrato il dato ("non/ memoria o nostalgia,/ …"): figure e personaggi nascono dall’esile tratteggio cui non sfugge lo spazio benché minimo posto in rilievo da un’architettura lontana: la memoria, in questa sorta di parte chiara solare, precisa, in cui prevale il nitore sull’oscurità, l’esplicito sul non detto.

In questa sorta di "camera chiara", la scrittura è piacevole, luminosa, ("nel cerchio d’oro/ del salotto/ …nella/ tavola inclinata/ sul mare che li abbaglia/ al varco della sera/ "), e comunque ha il sapore di ciò che è aperto; rappresentazione di uno spazio ora quieto ora mosso, ma pur sempre vivace, schiuso ("Sul lungo mare/ in piena estate/ Tenuto per la mano/ alla ringhiera,/ dal ponte fisso il mare/ … appoggiato/ con la spalla al/ muretto del terrazzo/ …"). Anche quando si tratta di ambienti chiusi i luoghi della "camera chiara" sono sempre luoghi di relazione e ben spesso lieti ("… La tengo perplesso,/ per un dito,/ …Mio padre/ giovanissimo, insieme/ ai suoi compagni/ (…)/ Scherzano,/ … Sorridente, però/ anche lontano/ … la mano tesa a salutare/ … Ride con qualcuno,/ davanti, che -si/ suppone- l’accompagna,/ …"); pure gli oggetti e ancor i più vestiti vivono di questo clima: oggetti pronti fisicamente ad aprirsi; oggetti minacciosi solo per gioco; vestiti esuberanti, ricercati, minuti, allegri ("…nell’anta che si/ apre piano/ …un cane truce, ma impagliato/ …Ho una maglietta/ larga, che copre/ gli altri panni/ …il piccolo vestito/ gonfio stretto al/ laccio, con tutta/ la ricchezza/ sotto il busto/ e le spalle ornate/ di perlina./ …Un grembiulino/ chiaro i calzettoni/ a righe (…) …Lo chemisier/ frizzante e/ una borsetta bianca./ …Il charleston di raso/ con fiori di paillette/ e frange di perline/ sulle gambe nude./ Le scarpine décolleté/ col nastro./ …").

è così che la fotografia si dà a vedere: ma il dato non è tutta poesia: la "camera chiara" è solo una parentesi, chiusa la quale già si è a contatto con i battenti di una camera oscura (la "camera oscura" della Camera oscura).

Le parole iniziano allora a farsi più pesanti, più gravi e a presentarsi con legami di significato inusitati, paradossali. Affiora una grammatica dell’eco e la figura della distanza cresce a dismisura ("La parola, per me,/ veniva da distante./ …Mia madre, amata/ e, per amarla,/ tenuta più lontano./ (…) Rivista a tappe/ da una mia vita/ autonoma e distante../ …guidandolo lontano/ …Allontanato da me/ e, in gran parte, escluso/ da ogni possibile futuro/… L’oscuro delle/ rette divergenti/ da un punto/ sulle carte/ all’infinito/ …").

Questa distanza, questo senso della lontananza -lungi da quanto ci possiamo aspettare- non fa i conti con una struggente elegia del perduto: è distanza-vicinanza, un condividere il senso del tempo veterotestamentario e parimenti quello evangelico: chi si volta indietro rimane statua di sale (e, se si ama, non si deve volgere lo sguardo a ciò che sta alle spalle). Il tempo di Ruffilli, in parole schiette, è un anti-tempo; un tempo che si ribella al tempo; è il tempo che ci si porta dentro, punta di freccia. Come la cultura indiana non ha mai forgiato il senso dell’avere (non esiste il verbo avere nell’hindi), così la cultura ebraica se da un lato rinnova in un certo qual modo il veto indiano, dall’altro toglie dalla scrittura il presente: il presente è l’Eterno e colui che dispone del presente è Dio. In Paolo Ruffilli –se mi è concesso il paragone- il tempo presente non è mai un’isola che affoga, premuta dalle acque torbide del futuro e da quelle ancor più torbide del passato: è bensì la forza, è l’essenza del reale e tutto ciò che è stato vi riaffiora in con-ti-nua-zio-ne.

Il massimo della distanza contiene perciò sempre la forma della vicinanza; anzi, si vedono tanto più le persone e le cose quanto più la loro luce è fatta passare attraverso il prisma crepuscolare della solitudine.

Altro dettaglio: il dolore. Ne accenna così Raboni: "La traiettoria del gesto espressivo compreso in queste pagine (…) va dal riconoscimento, dall’accertamento della ferita (…) alla sua cicatrizzazione simbolica, al rito del suo disseccamento nella pratica del linguaggio". Appare più volte un dolore improvviso che, se lo si potesse collocare fisicamente, avrebbe per luogo ideale le vie del respiro. Accade proprio come se l’autore ci desse l’impressione di rimanere senza fiato, e costringesse quindi il lettore a fare altrettanto ("Ma non la riconosco/ … -pausa- …Poi, scocca l’ora/ che uno neanche teme./ … -pausa- Scoperto per caso/ da mia madre/ sdraiato a letto,/… -pausa"). Il dolore di Ruffilli non è mai tuttavia un dolore che trabocca, la pagina non ne rimane devastata; è dolore sottile, inavvertibile; a volte un tacere, una scia infinitesimale: come se a parlarne fossimo nelle condizioni descritte da una poesia: "…tenuti il dopopranzo/ con il capo sul ripiano/ nel dovere di stare/ silenziosi, guardarsi/ magari di nascosto/ e ridere sepolti./ purché non colti/ di sorpresa/ e messi all’angolo/ …".

Inaspettatamente, questo infinitesimale a volte avanza da un nucleo irriducibile ed immanifesto, similmente alle condizioni in cui giungesse a noi per un pertugio dell’acqua dal vano accanto, e si scoprisse poi che quel vano ne è una riserva inesauribile: parimenti, il dolore di Ruffilli rinvia ad un misterioso incorporeo continuum ("L’altro capo del filo/ che mi tira./ …").
Nei dialoghetti di sapore metastasiano che costituiscono un’opera scritta anni addietro, Piccola Colazione, questo carcinoma interiore è descritto nei termini che seguono: "Pare che al mondo/ non ci sia una storia,/ che manchino contorni/ definiti, che tutto/ avvenga, da un certo/ punto almeno, per inerzia/ o per pressione di un vuoto/ che acquista moto e spazio/ nel procedere dei giorni/ fino a farsi pieno". Ebbene, se Raboni ci avvisa della forza presente in Camera oscura, di una poesia che è liturgia del risanamento, cicatrice e sutura, il Ruffilli più giovane mostra che ogni falla ricucita ha sempre per sfondo un paesaggio di gole e crepacci: pozzi, coni di vulcani, precipizi. In Piccola Colazione cioè, in questo pasto residuale che esaspera la fame anziché diminuirla, in questa sorta di colazione anoressica, il vuoto dilaga da più parti, aggredisce ogni minimo accadimento ed investe i personaggi, riducendoli uno ad uno ad una finzione, ad una comparsa ("specchio di sé/ ad una sua spoglia"). Ogni sforzo lenitivo del linguaggio cui sembra si affidi gratuitamente l’esperimento mnestico della Camera Oscura, rischia di diventare solo l’illusione di uno sforzo se non si capacita con queste radici, se non ha il coraggio di sostare presso l’inquietudine impudicamente aperta in Piccola Colazione: "…così, aperta/ gonfia, illividita,/ anche se non più/ del tutto sanguinante,/ la ferita". Non diversamente del resto avviene al poeta bambino in Camera Oscura, il quale si trova a combinare incroci di parole sul quadrante sorretto dall’incerto appoggio di una sedia, come se la vocazione al linguaggio e il senso dell’instabilità fossero l’una lo specchio dell’altra.

In Piccola Colazione tutto questo ha il "segno della fuga/ e dell’assenza, del/ marcio e dell’oscuro,/ del regno perso/ appena conquistato,/ del porco che si gonfia!/ ed è sgozzato, del/ mucchio di neve/ sciolta in niente"; nell’ultima raccolta l’"oscurità" lascia invece trapelare –là dove s’addensa più nero lo strato della caligine- un senso provvidenziale: qualcosa si dà a vedere; il non-senso lascia una traccia, un’ombra di senso; la palafitta della solitudine ospita un villaggio; il segno linguistico non è più e solo l’altro dalla cosa ma, nell’atto di pronunciarla, la rende depositaria di se stesso: di significato.

Esiste per il poeta "un alfabeto,/ perfino dall’abisso,/ del non senso"; esiste "la scoperta che/ i tanti minimi/ e spaiati tratti/ appartengono allo stesso/ sistema generale/ fatto di parti/ e di rapporti/ che hanno perfino/ un senso nel loro/disordine totale".

Nel de-serto (de-sertum), nel disintrecciato, si dà a vedere un intreccio: esili fili si ricompongono e danno il senso di un’impronunciata attesa.

PAOLO TORRESAN
in "I Quaderni del Battello Ebbro", n.22, giugno 1999



"IL TUTTO è POETICO" DI PAOLO RUFFILLI
1) L’incommensurabile duttilità delle forme e la indefinita dovizia di contenuti (tutto è poetico, la differenza è nel ritmo e nella tonalità) fanno della poesia il cosmo più illuminante tra le arti: il racconto non è poesia ma la poesia può raccontare; non è teatro ma può rappresentare, non è narrativa ma può narrare. Paolo Ruffilli, con abile maestria, ha creato, per sé, una singolare modalità del comporre, che si esplica nella cornice di una progettualità di tipo narrativo ma di tono poetico (velocizza e rafforza la tensione del linguaggio piegando la frase a brevissimi versi, folgoranti come dardi di luce). Subito è stato notato il carattere di compattezza narrativa di Ruffilli, tanto che sono stati definiti Piccola colazione un "romanzo di formazione autoironico"(Pontiggia), Camera oscura un "romanzo familiare" (Raboni), La gioia e il lutto un "diario privato" (Mengaldo). Romanzo, diario connotano la costante antilirica, mimica di una prosaicità vitale, nella quale il pensiero sa dare il taglio alle azioni, agli accadimenti in un’ampia variabile di luci e di ombre, in una sorta di monologo perscrutante e doloroso. In Ruffilli agisce la prestoria concepita tutta intera nell’astrazione genetica, non provando alcun interesse per la psicologia, per la costellazione delle emozioni, per l’ambientazione storica e di costume, avventurandosi con delicato equilibrio nel delineare, per frammenti svincolati dalla logica di successione (enti tipici del narrare), situazioni e motivi, evocati per balzi e a strappi, sotto un rigoroso controllo del pensiero che sceglie la parola, con asciuttezza e parsimonia, spingendola a dire e a non risuonare. Ruffilli ha piena coscienza della esecuzione stilista e normativa. Egli non è nel mezzo fluttuante e spasmodico delle vicende, ma al di fuori, a calcolata distanza, perciò è in grado di dominare i suoi sensi a non sforare oltre la regia della sua volontà. Tutto è già accaduto, i vivi sono morti, pertanto nello scatto della creazione ad agire nella costruzione dei mondi è la parola, che gli giunge da "distante", esiste prima degli atti (è quindi, kantianamente, un "apriori" semantico), e, rompendo la cortina dell’inesistenza (in quanto non più esistente) eccita il desiderio di mettere in scena la storia e privata e sociale: il tormento della malattia, l’odore del sesso, il piacere dei primi amori, la spina di una società indifferente fino al dialettico contrappunto di valori perdenti, quali la gioia e il lutto. Il pensiero, in tale fattura creativa, regge la dinamica per pulsioni, per frammenti di dialoghi, per frasi memorabili - residui di episodi di vita smodati, come se fossero rimasti conficcati nella mente di chi ha vissuto quei momenti: se Gozzano è dentro alle sue atmosfere, Ruffilli si tiene fuori, usando un tono distaccato. La drammaticità quando emerge è contenuta nell’incisività rigorosa del verbo.


2) I testi di Ruffilli (Piccola colazione, ’87; Camera oscura, ’92; La gioia e il lutto, ’01) si sviluppano in omogeneità (che non è uniformità), incarnano uno stile simigliante ma duttile e "sciabolante". Infatti la verticalità strofica, costituita da quinari, senari e settenari (raramente si va oltre tali misure) è indice, dentro alla lucida sorvegliatezza della materia, di una inquietudine nascosta e sotterranea. L’andamento frastico mima docilmente, nella sua ragione essenziale, il registro della prosa: la piegatura crea il suono della rima, il nesso allitterativo, elementi che arricchiscono il ritmo e danno al disincanto programmatico del poeta un senso nervoso e scattante: Per questa densità semantica, allora, il pensiero si contrae e l’animo sente il dolore della vanità della storia, della vanificazione delle cose che non esistono (tutto è già esistito): in Ruffilli si instaura una lotta tra il nulla della storia e della realtà che "più toccata e presa, più/ sfuggiva inconsistente ai cinque sensi". La terza persona unidimensionale (la datità, i fatti) e la prima (voci che emergono dalla rappresentazione accanto alla voce del poeta) fanno da contrasto in quanto funzione del pensare e del riflettere. In Piccola colazione, in cui il poeta mette in essere l’originaria messinscena della progettualità, opera concepita come luogo del narrato disperso e frammentario (per i tanti livelli che sono nella testualità) l’ambiente è quello piccolo borghese, in una serie di interni privi di paesaggi e di orizzonti (questi sono invero solo mentali e morali, e connotano fervidamente il corpo malato dell’ultimo libro). L’utilizzo dello specchio, topos letterario, serve a creare lo sfondamento della interpretazione nella lacerazione della coscienza iniziatica, perché senza il riflesso ciò che è non appare, mentre con il riflesso ciò che appare è: ed è l’adolescenziale scoperta del sesso e dintorni, le trasgressioni coniugali, i giochi amorosi, l’insincerità e l’ambiguità del rapporto, insomma tutto quell’armamentario borghese che, filtrato dal severo spirito del poeta, è presentato nella natura di un’ineluttabile ripetibilità. Nonostante la distanza che prende dagli eventi il poeta avverte, nella meditazione del suo canto/disincanto, un senso di perplessità, di smarrimento: "nel punto estremo e,/ormai, non più lontano:/alla foce del fiume,/a un passo, ad una spanna/dalla frontiera, chi c’è/o cosa…che mi salvi/dal salto, dalla condanna" (dove nel profondo agisce bene assimilata la lezione montaliana). In Camera oscura, Ruffilli concentra la sua mente su un "pacco di foto", di cui "per convenzione /l’urlo è muto e /sta bloccato il corso/nella sospesa evoluzione,/avanti e indietro". Al cospetto di un tempo, di un luogo, di una civiltà il poeta si trova congelato, quantunque sia conscio che tutto è silenzio, passato: "Tutto è già accaduto [il "distacco" e la "distanza" sono in quel tagliente "già", concetto ben presente nel tempo composto]/e viene lì accertato/con minimo distacco". Allora l’immaginazione dà movimento, di scena in scena, a luoghi, figure, odori, colori in un raffronto ravvicinato, anzi speculare, prima descrivendo i dati e poi risvegliandone le movenze e le mosse. Nella corrispondenza connettiva si addipana l’intreccio tra silenzio e parola, tra riesumare e ricreare. Dalla polverosa nullità che è la storia, si risveglia il mondo passato, brulica in ambienti interni, tra rispetto e malvagità. L’esistenza è brutale, perversa, si incarica di dare quiete e felicità per un istante, poi tutto scompagina, addolora. Il poeta è coinvolto asetticamente tramite la finzione del personaggio e si vede felice nella foto a cinque anni: "Mia sorella/di pochi mesi,/avvolta in un grembiule/che la preme/La tengo, perplesso,/per un dito". Eppure, avanti nel tempo, subentra lo sgomento di sentirsi estranei: "Trovarsi raramente/e non avere, adesso, /niente più da dirsi". Ne deduce un principio tenebroso: "L’oscuro delle /rette divergenti/da un punto/sulle carte/all’infinito". è da tale stato d’animo e da tanta inquietudine che ha origine La gioia e il lutto, l’opera nella quale la scrittura si fa ferma, precisa, drammatica. Il pensiero ruffilliano ha rigore di tratto, forza di possessione e di consapevolezza, il dominio del proprio stato e della destinazione umana. La vita e la morte, leopardianamente, sono in un gioco di equilibrio, non tra loro in lotta né alternativi, ma traslattivi, in un vortice di perennità: "Senza la morte/non ci sarebbe niente/né società né storia/non l’avvenire/ e neppure la speranza"; la coscienza della morte costituisce l’atto "illuminato/dall’evidenza/dell’affrancante unicità/di ogni istante/ che passa e se ne va". Il dolore, la sofferenza, la piaga mortale, così, sono inclusi nel destino, nella finalità delle umane cose, e resiste la domanda: "Che sarà dopo?/Cosa accadrà?".

CIRO VITIELLO in Antologia della poesia italiana contemporanea 1980-2001, Pironti Editore, 2003

 

LA GIOIA E IL LUTTO
La vicenda letterale è semplice: un giovane agonizza e muore per AIDS; attorno a lui il padre, la madre, l’amante. Lo snodarsi delle sensazioni, degli smacchi, delle delusioni, è raccontato e commentato facendo emergere altre profonde ragioni che danno un tono elevato e quasi metafisico a quello che sta accadendo. Le sonorità ritmiche, le repentine curve espositive, le trame di lemmi – antitetici sovente e bipolari – che rinunciano alla loro individualità per farsi multidimensionalità variante: tutto collabora alla sospensione tra il manifesto e il non manifesto, tutto evoca la propensione per un di più all’esterno e all’interno del vasto schema delle cose.

Se la tessitura della vita si lacera sempre, esiste uno spazio immateriale, frequentato dal sogno sensibile e dall’intuizione dello spirito, che si estenda oltre la lacerazione? un intervallo senza argini che superi ogni messa in discussione? Il dramma, pensa il poeta, è la frattura del volto, il suo destituirsi nella morte. è il luogo della disperazione? o c’è un cordone ombelicale che raggiunge una “presenza” intravista, oltre l’oceano? fin dove sollevare l’ékstasis dello sguardo? fin dove regge una sutura simbolica? Sulla riva della sua apokálypsis, Paolo Ruffilli armonizza il suo ritmo spezzato e sincopato. La gioia e il lutto narra il ritorno dall’illuminazione sul senso e sul fondamento della vita; e lo fa prendendo abbrivio dal suo contrario, l’accadimento della morte, l’immersione nella camera più oscura del mondo.

Per la sceneggiatura si è reso necessario, perciò, un doppio registro: quello del morire che, accadendo, dilegua, e quello del ri-vivere che, astraendosi, si espande. Il passaggio dall’uno all’altro coincide con il paesaggio del diaframma immaginario tra le due sponde, e avviene mediante la separazione graduale di due forme di canto; cosa che crea, all’interno del poema, una duplice pendenza ritmica, una ascendente e una discendente, unite da un intrico sempre più lontanante, separate da una divaricazione sempre più ampia e prossima, fino a che, in dissolvenza, la prima scompare e l’altra si rinforza restando l’unica modulazione.

Il soggetto prima facie, e anche il prae-textum, è come l’orbita minore di un planetario sulla quale si immette il poeta-ritmo. La prima potenza che lo sfida agisce sotto il segno del nulla, che qui assume la forma dello svanire di ogni spazio nello strazio. Nel “silenzio che precede la rovina”, perché “tra me / e le cose intorno / si è stabilita / quasi in un baleno / una distanza abissale / e niente vale”; “mi sta esiliando / a tappe, il mondo”. E “Strappare via chi ami / dal cuore della carne / in cui si annida / è come sradicare / la quercia dalla terra”. “Ti vedo oramai / solo di spalle / come dall’alto di una / vetta calare giù / sempre più in basso, / avanzare per la stretta / calle in fondo al varco / dove sparirai. /…/ Sei già in contatto / con qualcosa d’altro /…/ il tuo sguardo è altrove: / dove, non appare / però non qua in giro. / Fissi un altro mondo / a un passo appena / eppure via remoto, / distante, siderale”.

Come nel ricominciamento incessante di una comœdia dell’anima, nel suo dramma Ruffilli gioca un molteplice ruolo: agens poetico, interroga in chi scompare un proprio alter-agens. Non c’è travaglio più grande, tormento più doloroso; la tragedia è definitiva. La superficie è il suo profondo, e viceversa; non occorre anatomizzare per capire, basta essere: spettatori/attori. Non c’è altro… da dire. Ciò che resta è nella parzialità provvisoria dell’essere: un secondo alter-agens, l’altro polo dell’io poetante: “Figlio amato, / qualunque tu sia stato”; a te che gridavi “senza dirlo: “Papà, ecco tuo figlio! /…/ a te che mi chiedevi, / che pretendevi /…/ da me, opere vive. /…/”, solo inutili “fiumi di parole /…/ Non ti sei perso, / no, sono io / che ti ho perduto”. Chi rimane nell’essere rimane senza…: l’amore non realizzato si realizza in un breve attimo di vicinanza incolmabile.

E subito non v’è luogo più per una condivisione, se non condivisione in atto di distacco. Ma si può alla fine condividere il distacco? o quel rapporto mancato su una via forse troppo creduta bifronte o bidirezionale, e non soggetta all’inesorabilità del tempo, altro non è che metafora di ogni rapporto che ad ogni fine manca ogni appuntamento con ogni amore? Nel diuturno girare di noi, scintille di non sappiamo cosa, altri precipitano, e poi noi; ma prima quello che siamo nell’altro e che l’altro è in noi entra in un gioco che recide, che deride l’abbraccio di un volto con un altro volto, la tenerezza di parole scambiate nel sogno ritenuto fattibile di un’eternità posseduta insieme; la felicità di guardarsi, guardare l’essere guardati.

In qualunque modo avvenga, la sostanza del mondo, sembra sussurrare Paolo Ruffilli, è anche (in) questa recisione, (in) questo lascito di buio; un sorriso d’occhi luminosi in dissolvenza inarrestabile. E quel che perdura è… algida parvenza che più non somiglia a niente di ciò che fu, seppure da quel che fu si nomina; ma con ignoti nomi e categorie diverse, come vuoti dispersi; vuoti in realtà fatti di vuoto. Soltanto questo? o mistero?

Alle voci recitanti distribuite su diversi livelli di concertazione, e orchestrate su separate frequenze drammatiche, si aggiunge, via via più indefinita, l’eco di un canto somigliante a risonanze cancrizzanti di silenzio: è il terzo modulo, l’ultimo alter-agens, un’altra sfera, più ampia, del planetario. Lungo questa rotta d’osservazione si avvertono le perturbazioni generate da un’imprevedibile sorgente d’energia. Il merito della scrittura sta nel de-locare la nostra attenzione e condurla verso il campo di battaglia risolutivo dell’essere e del nulla, della tenda senza astri, del deserto senza verità; o forse, degli astri senza tenda, della verità senza deserto. Le onde del ritmo corsivo, autentico coro di tragedia greca, autentico nastro di Möbius sul quale senza fine scorrono il dentro e il fuori, il sopra e il sotto, il finito e l’illimitato, tendono il firmamentum del teatro cosmico tra la spirale di stelle e il buco nero che invisibile la in-segue.

è il contenuto più profondo del poema e il più fecondo, quello che genera gli altri come movente sorgivo. La differenza di potenziale che vige tra questo e gli altri canti è il motore di tutta la lirica. Sembra d’essere prossimi a qualcosa che esibisce la compressione della fine e la compatezza ripiegata dell’inizio: un vortice formante dove le parole si condensano e si rarefanno, si richiamano e si negano, si attraggono e si respingono, si compongono e si scompongono; i legami si instaurano e si dissolvono, si risolvono, si restaurano. è lo stato nascente.

Nell’imprendibile pacchetto semantico i fronti d’onda multivalenti delle singole stringhe di significato si riflettono tra loro come altrettante stelle nel cielo di Indra, ognuna delle quali contiene in riverbero tutte le altre. Nella concezione orientale, come in quella della fisica moderna, ogni cosa dell’universo è connessa a ogni altra cosa e nessuna sua parte è fondamentale, fondamentale essendo solo lo sconfinato oceano del tutto. In un cosmo di forme fluide e mutevoli, l’inseparabilità è la struttura, la condizione; l’ultracosmo è il fondamento. Dal punto d’osservazione ultracosmico, il morire è la spinta d’un ri-fiorire.

L’autore si muove con la maestria dell’esperto e la sapienza del contemplativo. Il canto corsivo può essere letto a partire da molteplici punti, ricco di illuminazioni anche con letture a ritroso. Verso quelle il poeta si incammina e un itinerario addita a noi: “La parte / più sottile / e più leggera / volerà via / e troverà la strada / da cui passare poi / dentro il giardino / nel retro del mondo. / E l´ nel fondo cieco / dove la vita / finisce ai nostri occhi / scandita dalla morte, / fluisce un grande / fiume d’energia / che spande e che riversa / oltre le porte / l’eterno nel presente”.

è lungo questo circolo che la poesia si fa grande dialogo con il silenzio; sembra anzi che il silenzio la invada e in parte la consumi. Per questa ragione il ritmo è sincopato: la sincope, l’arresto, non sono una mancanza, sono un altro modo di dire, un modo di far parlare il silenzio, di ascoltarne il suono. Colui che deve passare dall’altra parte si trova nello stadio del locked-in, chiuso in sé, blindato dal di dentro, impenetrabile. Il suo mondo si trova nello stesso stadio, ed è come se tutto il mondo si trovasse locked-in.

Il silenzio del morente è anzitutto il sintomo dello scacco. Ma sul quel silenzio s’ode come il velo d’un altro silenzio, quello poetico e mistico. Una forma di conoscenza superiore, sorretta da un’invasione del divino nel cuore dell’uomo, ammaestrano le storie dei mistici, dalle Upanišad ai moderni monaci dei deserti o delle metropoli. Nella sua tonalità non irrazionale ma ultra-razionale, il silenzio è il genuino reame simbolico dove il presente si protende verso l’eterno; è esso, infatti, che illumina questa riva, essendo contemporaneamente la costellazione infinita dell’altra.

Con La gioia e il lutto Ruffilli si rivela non solo il cantore pensoso e delicato dell’umanissimo dramma del soffrire e del morire; non solo il cantore “metafisico” della trasformazione e dell’attimo del passaggio: da questo spazio ad altro spazio, da questo tempo ad altro tempo, da questa coscienza ad altra coscienza, da questo pianto ad altro canto. Si fa aedo della multidimensionalità del reale; dell’antica galassia del desiderio mistico e dell’ispirazione poetica; di un’unità ultracosmica della quale il cosmo fisico e quello umano sono l’umbratile semioforo, che i grandi pellegrini del pensiero sono riusciti sovente a decodificare.

Dacché il cosmo è stato ridotto al rango di oggetto senza potere di significazione, e lo spazio è stato strappato al proprio ’spazio’, tutto è diventato drammaticamente illeggibile. Lontano dal fuoco, ma è solo apparenza, l’orbita dell’ultima navigazione racconta questa crisi di frontiera all’inseguimento del vincolo del mondo contenuto nella dimensione del Tutto: il Vuoto di Tempo e di Spazio che, spontaneamente e senza fatica, genera la sua energia infinita e, a partire da essa, tutte le cose che esistono. Il Vuoto non è il Nulla, ma è come la luce della finestra, il vano della porta, la capacità del vaso. è il versante complementare del profilo pieno, l’altra faccia della medaglia; è la regola celeste che si oppone a ogni analisi e che le parole non possono contenere.

GIOVANNI ZAMPONI in “Smerilliana”, 5, gennaio-giugno 2005

UN PROTAGONISTA EVIDENTE
Paolo Ruffilli è un soggetto evidente. E dico evidente nel significato più prossimo: uno che si fa vedere, che si lascia notare, che è sul podio dei protagonisti. Lo fa intenzionalmente, e io intenzionalmente per questo lo ammiro, e quando posso chiedo esplicitamente la sua presenza. è sicuro che egli vive letterariamente, come una volta ebbe a confermarmi, e la sua letteratura come vita si riverbera anche, forse soprattutto, in un aperto e intenso ’apostolato’ poetico per la maturazione culturale e umana dell’ascoltatore.

Ma non è tanto questo che spiega e giustifica il suo essere evidente. Il suo esporsi è in realtà parte integrante del suo essere poeta. Lo si capisce quando parla in pubblico della poesia come necessaria convergenza del linguaggio logico, e dunque comune a tutti, con quello analogico, più da alunni delle muse; quando rileva che il mondo è in larga misura invisibile, e che con quell’invisibile bisogna confrontarsi, esistenzialmente e poeticamente. C’è un invisibile che anche la scienza insegue, cercando di renderlo visibile con i suoi strumenti o almeno con le sue equazioni. Non è esso però il genuino invisibile, essendo soltanto un invisibile potenziale. L’autentico invisibile è l’altro del visibile, e questo può contemplarlo solo chi è abituato a cogliere il mondo come parte di un simbolo. Ruffilli è la testimonianza concreta che è possibile, anzi doveroso, questo dialogo simbolico tra il visibile e l’invisibile: il suo porsi in evidenza è in funzione di questa testimonianza, è un agitare la propria visibilità perché si percepisca, almeno in parte, lo sfondo che intende comunicare. Il rapporto figura/sfondo è, non per niente, uno dei cardini e dei canoni della sua filosofia e della sua poetica.

“Pellegrino del pensiero”, Paolo Ruffilli, appare perciò da sempre in cammino, insieme all’inquietudine di tale compito dialogante e lungo il suo “percorso sghembo” – come fece osservare, riferendosi a lui, E. Montale. Novello Orfeo, si aggira per il mondo con la cetra per strappare l’anima alle forze ctonie che governano la pesante solidità del nulla. Non si tratta di ricondurre Euridice sulla terra, ma di scoprire il varco per ritrovare se stessi: “Poi, alla fine, / mi metto in moto / nonostante / la tentazione di restare / nelle zone più vicine / in vista del mio noto. / Ma, in compenso, parto / solo per tornare. / Non so neanch’io / cos’è che vale / e mi convince, / quale pensiero… / un’intuizione certa / un sesto senso / che mi spinge, / la coscienza fulminante / di una scoperta / paradossale, / che bisogna perdersi / per potersi davvero / ritrovare”. Se a Orfeo è indispensabile la musicalità della cetra, la poesia di Ruffilli fa proprio della musicalità il suo punto di forza, nel cerchio di una strettissima marcatura della parola.

Ritrovarsi significa per lui ri-collocare l’esistenza nel giusto sfondo che coincide con la dimensione del Tutto, nel Vuoto di Tempo e di Spazio; in quel tempio invisibile e senza pareti in cui accadono le cose come riti, e del quale egli si propone qual conoscitore e ministro di culto. Il Vuoto non è il Nulla, ma è come la luce della finestra, il vano della porta, la capacità del vaso; il versante complementare del profilo pieno, l’altra faccia della medaglia. Ruffilli non concede vie privilegiate di accesso al Tutto; la via di chi è radicato nella vita è altrettanto valida di quella seguita da coloro che frequentano gli scintillii della scienza. A due condizioni, però: che si parta continuamente, al seguito dell’energia che è movimento in movimento; che si scelga di guardare la realtà con una visione non-standard/indefinita, e dunque mai effettivamente posseduta e sempre rinnovata e testimoniata. Condizioni che confluiscono in un unico corollario: mettere in moto il fatto (ergon), esibirlo e drammatizzarlo da tutti i punti di vista, per ri-generare il richiamo dell’azione (energheia).

Nei Preparativi per la partenza, ad esempio, i protagonisti vagano alla ricerca di segni, geografici o interiori, che esibendo la loro estraneità sul consueto, la loro strenua contraddittorietà come contrassegno di vita, siano occasioni d’esercizio di quella facoltà di lettura non standard indispensabile per acquisire una più profonda conoscenza del mondo. Se è così, lo sforzo principale di scandagliare la realtà non può essere affidato a un approccio meramente sintattico-organizzativo da porgere all’argomentazione, ma va proclamato efficacemente all’immaginazione – “l’unica via che io conosca per saperne di più”, confessa l’autore-protagonista. L’immaginazione in Ruffilli non è una forma depotenziata di conoscenza. Al contrario, si inscrive nel rivo filosofico dell’immaginismo, quella forma di pensiero che connette mirabilmente e mirabilmente distingue la sponda dell’’adesso’ e del ’qui’ dalla sponda dell’’altrove’ e dell’’eterno’. Immaginare non è divagare. E’ una sintesi superiore fra la conoscenza fornita dal nostro apparato logico-sensoriale (e per estensione tecnico/scientifico) e le potenzialità e le prospettive estetiche ed estatiche, secondo le quali, al di fuori del tempo e dello spazio, l’ospite segreto del nostro io profondo guarda all’orizzonte con intenzione non delimitabile, e crea ininterrottamente il suo specifico contesto del sentire, diventando sempre più “uno che non smette / di cercare, suo malgrado, / quello che non ha trovato”. Versi che converto, concludendo: uno, altresì, che non smette di mostrare, suo malgrado, quello che ha cercato.

GIOVANNI ZAMPONI in Poetica, U.ma, 2007





A PROPOSITO DI "CAMERA OSCURA"
La foto si pone come un black-out rispetto alla nostra misurazione del tempo. Peggio, essa costituisce una sfasatura rispetto a quel tessuto di convenzioni dentro le quali il tempo semplicemente vissuto viene poi razionalizzato, reso "esplicito", affidato a una macchina che lo misura. La foto disturba e mette in stato di choc il modo stesso che noi abbiamo di percepire il tempo, quello che consideriamo il flusso degli eventi naturali. Ora proprio questo spiazzamento all’interno del nostro modo di sentire il tempo è il movimento che si pone in questi testi di Ruffilli, in Camera oscura, tra la trascrizione dell’istantanea e il diffondersi del commento.
Abbiamo nella foto, da una parte, un tempo di tipo assolutamente puntiforme e, dall’altra, un tempo più "diffuso", alonato e armonizzato nella circolarità in cui si colgono tutti e tre i momenti, passato, presente e futuro. Lo scontro di questi due tempi, sulla pagina, crea il paradosso dell’attimo: sia nella direzione della presenza che si nega nel suo porsi, quale annichilimento in cui l’attimo nel suo stesso apparire già si distrugge, sia anche nella direzione del "punto perenne", una specie di falsa eternità dell’attimo allo stato puro.
La bravura di Ruffilli sta nel non chiudere il circuito; nel lasciare aperte, appunto, le due direzioni di cui si diceva. Con l’effetto di uno spaesamento, tra perplessità e sconcerto, che è pur sempre il quoziente massimo della poesia. In queste pagine la parola, da una parte ridotta a mimesi dell’afasia, dall’altra è tesa a ripristinare le proprie ragioni, anzi "una" ragione, e a cogliere il mondo e i rapporti interumani. E c’è una presenza continuamente ripullulante di "essenze" (mentali e spaziali, cromatiche e foniche) in un collage corrosivo con "fatti", "cose" e "persone". Si genera da ciò un’energia coinvolgente dentro questa ricognizione di gesti, atteggiamenti, pensieri dell’io e delle molte presenze individuali, sempre marcate affettivamente, che lo attorniano. L’altro diventa presente nei molti altri, si riassume come fatto di etica, un’etica perplessa eppure "instante", e alla fine implacabile.
Sommessa parsimonia e severità presiedono all’operazione. Ne deriva un tessuto espressivo che sceglie la linea "bassa", ma che è fratto e sospeso e ben altro che assestato all’univocità, ricco di una sua del tutto originale tensione immaginifica.

ANDREA ZANZOTTO in Terzo Programma RadioRai, dicembre 1992




LA POESIA COME NARRAZIONE
Si tratta quasi di un esordio narrativo per Paolo Ruffilli - più noto al pubblico per la sua lunga e proficua militanza poetica - questo "Preparativi per la Partenza", pregevole tessitura di 18 racconti in una trama unica che ha, in sé, una fluida consistenza per cui la lettura risulta, oltre che piacevole, utile. Sono 146 pagine che scorrono via bene, coniugando il fine didascalico con il mezzo letterario senza che l’uno vada mai a discapito dell’altro. Paradossalmente questo nucleo di racconti - tenuti insieme dall’idea di una ricerca individuale che avvenga attraverso l’incontro di "vite singolari" (i vari personaggi) - risulta più unitario di tanti altri libri che, invece, pretenderebbero di esserlo.
L’organicità dell’opera è dichiarata fin dal principio quando, proprio nel Prologo, lo stesso Ruffilli - qui nella duplice veste di autore e narratore - definisce i suoi personaggi "figure delle numerose anime di una stessa persona". E questa dialettica tra molteplicità apparente e unità segreta si manifesta persino in senso fisico nell’ermafrodito de "Le due facce della luna". Introdotto dal racconto di Ovidio nelle Metamorfosi, questo personaggio porta su di sé il segno della duplicità, presentandosi come "una di quelle doppie immagini che si rivelano in rapida successione".
Ma l’unitarietà, cui ora si accennava, è evidente nell’aspirazione comune di tutte le figure dell’io-scisso del narratore, ossia "riportare alle dimensioni supreme lo stato occasionale e contingente della propria vita", che poi si risolve nel prendere coscienza della propria funzione, per usare un termine caro al ladro sfortunato. Ed è evidente anche quando lo stesso ladro riconosce che, nell’assolvere tale funzione, egli risponde soltanto ad una chiamata (pag. 91). La stessa chiamata "più forte di noi" (pag. 42) di cui parla l’ex-tuffatore de "La chiave e il salto", enfatizzandone - però - l’aspetto sacro. Per lui, i Clavadistas sono addirittura sacerdoti laici che "si esercitavano a morire" per rigenerare la vita, "congiungendosi ogni notte con la terra".
Unitarietà - dunque - al di là delle molteplici forme ingannevoli, e unitarietà anche negli aspetti che via via esse assumono. Ognuno dei personaggi, in effetti, pare colto in un momento di estasi - di rapimento, quasi - in cui è posto davanti non ad un interlocutore particolare, ma al proprio destino. E così, senza più infingimenti, ognuno di loro traccia una sorta di consuntivo che, lontano da ogni falso moralismo, giunge fino alla coscienza dell’Uno dietro il Tutto.
Mi pare significativo, a tal proposito, il ricorrere reiterato del verbo vedere in tutti i suoi sinonimi e di quei caratteri propri di divinità orientali - come il sorriso omnicomprensivo e la quiete ancestrale - che tradiscono alcune passioni di traduttore del Ruffilli autore, come per Gibran e Tagore. E ne do, qui di seguito, alcuni esempi: il lupo di mare "guardava me, ma fissava un punto più lontano" (pag. 14); il giocatore d’azzardo "mi parlava fissando un punto lontano" (pag. 35); l’ex-tuffatore parla "fissando intensamente il precipizio" (pag. 40) al punto da contagiare anche il suo interlocutore "i miei occhi fissi verso il fondo (…)" (pag. 44); l’ermafrodito Johann Marie parlava "con un distacco che non escludeva la partecipazione" (pag. 68); addirittura lei confessa che "attraverso gli occhi del collezionista [delle Cipridi] la vedevo (…)", ed è lui stesso ad invitarla "Vede? Stando qui (…) e guardando di quassù il mare (…)" (pag. 79); o con la schiava d’amore che "Emanava serenità", ma poi "La guardavo e, più la fissavo, più mi evocava la femminilità dominatrice" (pag. 84); o il ladro che, nel confidarsi, "mi guardava fisso negli occhi" (pag. 92) "e sorrideva fissandomi" (pag. 93) ma alla fine "fissava il vuoto davanti a sé" (pag. 95); o ancora l’esperta sessuologa "assorta nel suo discorrere piano" che pure "mi sorrideva piena della sua felicità risolta eppure misteriosa, sospesa nel tempo e nel destino che aveva appena evocato" (pag. 100), tant’è che lei "incarnava la concretezza fisica diventata pura visione" (pag. 101), "con la sua calma regale" (pag. 102).
Anche se il massimo grado di trascendenza si ha nella figura del giudice il cui viso "sembrava scolpito nel tufo", "ma appariva rassicurante, con il sorriso sulle labbra appena piegate verso l’alto. Sprigionava una carica intensa dagli occhi tagliati in obliquo" (pag. 113). Tra l’altro, proprio quest’ultimo tratto somatico lascia ipotizzare una sorta di immedesimazione maggiore del narratore-autore che in tale particolare ("occhi tagliati in obliquo") riconosce, nel Prologo (pag. 7), uno di quei "tratti esotici che mi porto addosso".
Lo sguardo torna il veicolo di una comunicazione pre-verbale in "La cima delle rape" quando "gli occhi del direttore [dei Progetti Speciali al MIT di Boston] mi trasmisero un lampo di curiosità" (pag.132) fino a pervenire alle estreme conseguenze nel viaggiatore perenne i cui occhi "lanciavano lampi intermittenti da due crateri aperti sotto la vasta fronte" (pag. 144).
Tutto - dunque - sembra rimandare oltre, "più in là" direbbe Montale. Ma anche a livello meta-testuale, il sistema di riferimenti sposa con naturalezza i classici coi moderni, dando un’idea di continuità - sì - storica, ma non storicistica perché il contributo di ognuno andrà a fondersi nel Tutto che lo giustifica. E anche qui gli esempi sarebbero molteplici: oltre al già citato richiamo all’Ovidio delle Metamorfosi, vi è un intero racconto (o, se preferisce, capitolo) "L’omino Michelin", dedicato alle passioni letterarie dell’autore e, più in generale, all’Arte. Ma l’aura di classicità riemerge qua e là in tutto il libro: dal significato in sanscrito del termine "mare" a quello del corrispondente aggettivo greco, dal riferimento a divinità di tipo panteistico come il mare Adriatico personificato (pag. 17) o il dio del mare nella leggenda sull’origine delle conchiglie (pag. 80), o ancora il legame primitivo e violento con la madre terra ("il nostro mestiere è di tuffarci tra le cosce della terra" pag. 43) e l’idea, comunque, del rito sacro. Eppure non mancano neppure rimandi ad autori recenti, o altri echi come quello di Thomas Mann nelle parole della schiava d’amore che invita "a partecipare davvero alla festa della vita" (pag. 87) o la filosofia di Schopenhauer nella visione di un mondo come pura rappresentazione di una volontà iniziale.
L’unitarietà - in conclusione - pervade ogni aspetto dell’opera (testuale e meta-testuale) e ne dà il senso; fino alla confessione finale di un eterno, inquieto viaggiatore che - nonostante la coscienza "di aver sprecato molte occasioni, di non essermi lasciato andare", nonostante l’incomunicabilità che permane tra i "due mondi lontani e stranieri" che sono l’uomo e la donna, nonostante una premonizione di morte "o avrei dovuto dire scomparsa" - nonostante tutto questo, ha la forza - il coraggio! - di dire in modo ancora una volta distaccato, ma di un distacco "che non esclude[va] la partecipazione", che è pronto a scommettere che la strada continui di là dal termine, oltre la morte apparente delle molteplici forme.

MATTEO ZATTONI in "books online", novembre 2003



SUL VERSO DI RUFFILLI
Invitano a riflettere sulla versificazione di Ruffilli i tre passi che seguono. Il primo, dal poemetto L’assedio di Costantinopoli (PC87)¹, consiste nella trascrizione su due linee di Inferno, V, 103: "Amor che a nullo/ amato amar perdona". Gli altri due da CO: interessano la citazione finale della sequenza alle pp. 22-23: "cantava piano, senza/ più sapere cosa,/ lo stesso ritornello: ‘il falchetto cacciavento/piomba a terra/ in un momento.’"; e un’altra citazione conclusiva, questa dal testo d’apertura di p.94: "(Il piccolo fagotto/ abbandonato in mezzo/ a nastri e fiocchi,/ nel cestino, avvolto/ in fiori bianchi./ Stampato, sotto, unito ai dati/ un novenario: ‘Nulla/ della vita conobbe.’)". Se ne ricava l’ipotesi di una versificazione a due livelli: quello dei versi individuati tradizionalmente dall’interruzione delle linee tipografiche e quello delle entità metriche interversali. è’ evidente infatti che l’endecasillabo non cessa di essere tale dopo la sua scomposizione in quinario e settenario, che il ritornello citato è di due ottonari (il secondo diviso in quadrisillabo e quinario), che il novenario –esplicitamente- può mantenere la propria identità anche diviso in un bisillabo in punta di verso continuato dal settenario del verso successivo. Si direbbe che in questi casi l’interruzione della linea tipografica costituisce un segnale per la scansione, traducendo sulla pagina il risultato della ricerca di una esatta e personale pronuncia. Va presupposta perciò la destinazione primaria del verso alla recitazione, nel momento in cui l’allestimento di un testo per la lettura silenziosa impone il reperimento di equivalenti tipografici della dizione che si intende imporre o suggerire. Nel primo dei casi riportati Ruffilli esplicita la propria interpretazione ritmica dell’endecasillabo dantesco tramite l’articolazione meno ovvia, con forte enjambement; nel secondo l’effetto della segmentazione è un rallentando conclusivo; nel terzo, mi pare che li senso della bipartizione del novenario sia l’enfatizzazione del "Nulla" iniziale.

Della legittimità interpretativa di una versificazione a due livelli trovo conferma nell’esame di alcuni procedimenti tipografici utilizzati in PC, che possono far intendere l’interruzione della linea tipografica come il grado forte di una scansione del verso in più sotto-unità, che si manifesta anche con due gradi più deboli. Il primo di essi è dato dall’introduzione, nella linea tipografica, di una spaziatura doppia, o comunque maggiore di quella che normalmente separa le parole. Si veda per esempio l’incipit "Luce in specchio e maniglia. Ma/ nell’opaco fondo dell’armadio," (p.87), dove la congiunzione in fine verso viene separata dalla parte di verso precedentemente per l’attrazione da parte del successivo, assieme al quale essa formerebbe un regolare endecasillabo, e configurerebbe la coppia di versi come settenario + endecasillabo. Tale lettura, del resto, conserva la sua pertinenza anche dietro una disposizione tipografica tesa a conferire dinamismo al tradizionale rapporto tra i due versi egemoni nella poesia italiana. Oltre a ciò, la spaziatura disegna in qualche modo la pausa che deve precedere e seguire la congiunzione avversativa. Il secondo, e più forte, segnale grafico di una bipartizione del verso è il tradizionale verso a gradino, adottato in PC con una certa frequenza: 29 occorrenze, concentrate in 7 testi (pp. 46, 56, 63, 72, 76, 87, 110) caratterizzati, nella polifonia del libro, dal carattere tondo non virgolettato e da una certa lunghezza, testi che accolgono le intermittenti accensioni liriche dei poemetti. Dal punto di vista metrico, va notato come Ruffilli senta la necessità di una disposizione a gradino dei versi più lunghi, applicata a 4 dei 5 versi eccedenti la misura dell’endecasillabo: "per un esatto stato/ e ruolo di persona," (p.58), "contratto,/ spoglia substrato palafitta", "di sé pago e contento che…/ ma libra al vento", "latte pallido perlato/ bianco luce" (p.88), rispettivamente doppio settenario, dodecasillabo (trisillabo + novenario), tredecasillabo (novenario tronco + quinario), dodecasillabo (ottonario + quadrisillabo). Quanto all’endecasillabo, è significativo che la strutturazione a gradino tocchi ben 5 delle 16 occorrenze del verso (alle pp. 39, 58, 59, 76). Ma tornando ai versi lunghi citati sopra, aiuta a comprendere il loro status nella coscienza metrica di Ruffilli il fatto che, quando il testo di PC da cui provengono i versi dal secondo al quarto (Luce in specchio e maniglia…) viene ripreso in Nuvole (p.20, Come stipato in sé raccolto), il secondo emistichio di tali versi viene allineato a sinistra e fatto diventare un verso a sé. Alla luce di questa variante, la versificazione di PC preannuncia quella di CO, dove Ruffilli utilizza tutti i versi dalle 2 alle 10 sillabe, ma nessun verso di lunghezza maggiore².

Un’altra serie di considerazioni può venire dall’esame delle varianti. Considerando la stesura di Prodotti notevoli nell’Almanacco dello specchio con quella di PC, i frammenti comuni al DN e al poemetto All’infuori del corpo, qualche passaggio dei testi da PC a CO, è notevole come un numero rilevante di varianti riguardi il taglio dei segmenti versali: si noti, nel confronto tra DN 57 e PC 117, la scomposizione dell’endecasillabo al v.2, in un contesto che fa confliggere (anche arditamente) metro e sintassi, e
compromette nella versificazione la solidarietà mensurale degli imparisillabi di partenza (7-11-5-7-5)
(nonostante l’ambiente
mi faccia preferire discrezione
e mi abbia imposto
quel tanto di buon gusto,
vizi borghesi.)

(nonostante l’ambiente
gli faccia preferire

discrezione e gli
abbia imposto quel tanto
di buon gusto,
vizi borghesi.)

La decostruzione sistematica dell’endecasillabo, del resto, appare un tratto di evidenza clamante nella versificazione di PC e di CO. Ecco la stesura endecasillaba (11-11-7-7-9-11-4: il novenario – di 2a e 4a – è leggibile come endecasillabo privato di un segmento bisillabico in coda) ricostruibile dalla sequenza d’apertura di CO 22: "(Nell’ambito di organza traforato,/ sta in posa su di un piccolo divano./ Un braccio è abbandonato/ sul punto di cadere./ Sostiene il mento con la mano./ Sotto la frangia fissa in lontananza/ gli occhi neri.)".
Non se ne può derivare, benché la componente endecasillaba profonda della versificazione del Ruffilli maturo sia con ogni evidenza fondamentale, l’assenza di altri modelli soggiacenti alla versificazione presentata sulla pagina. Si vedano, nel DN, i distici di ottanari (di derivazione librettistica, a conferma della vitalità in Ruffilli di quella lezione) in cui agevolmente si ricompongono i versi dalle 3 alle 8 sillabe della sequenza di p. 21; mentre il testo a p. 27 (versi dal quadrisillabo al novenario) mi pare possa interpretarsi come trascrizione analitica di un verso lungo, compaginato, per la sintassi e una rima strutturalmente portante (ringhiere: vipère: non l’unico episodio del manifestarsi di un gusto ludico e virtuosistico in Ruffilli), in quattro distici (leggerei: "C’è una discesa di meli dopo la curva del paese/ e una panchina, a mezza costa, di una vecchia trattoria.", eccetera).
Quanto al pattern metrico dominante, andrà notato un fenomeno più rilevante della semplice somma endecasillabica di due o tre segmenti. Si vedano, esempio minimo, questi versi che trascrivo da PC (p.80): "Sopra la luna/ è il regno del divino/ e, sotto, quello/ umano e demoniaco./ Dall’etere alla terra/ il corpo si fa/ sempre più pesante". è’ particolarmente notevole che ognuno dei primi tre versi formi un endecasillabo se letto in continuità con quello che segue. Vengono poi un settenario e una coppia di senari che danno, sommati, un endecasillabo. Il fenomeno è più evidente – il lettore vedrà da sé – nella lirica di introduzione a PC (La parola, per me), sulla quale getta luce la ripresa in CO 42-3 (introduzione di spaziatura dopo i vv. 6 e 11 e una variante di segmentazione nel finale). Non mi sembra improprio richiamare un nome che è già stato fatto tra gli ascendenti della poesia di Ruffilli, ricordando quanto Guido Guglielmi ha scritto sulla metrica dell’Allegria: l’osservazione, tra l’altro, che "nell’Allegria Ungaretti ha come disposto sulla pagina delle cellule ritmiche che possono dar luogo a diverse configurazioni e letture."³ Analogamente, si comprende il verso di Ruffilli se si ha coscienza della sua natura eteronoma: esso vale in quanto centro di attrazione per agglutinazioni più ampie, e non ha realtà che nella concreta esecuzione. La pagina di Ruffilli pare di conseguenza offrirsi ad una lettura che non può sottrarsi alla richiesta di interpretazione ritmica proveniente dal testo.
Da tale analisi discendono due considerazioni. In primo luogo, credo che la natura "aperta" del verso di Ruffilli possa spiegare l’insistita esposizione in punta di verso di articoli, preposizioni, particelle pronominali: il ricorso alla quale si potrebbe interpretare come esplicitazione dell’eteronomia del segmento versale, e insieme come tecnica analitica dell’unità più ampia, in grado di mantenere una tensione dinamica tra le parti. Si consideri che molti di tali versi formano con il successivo un endecasillabo, e che spesso una rima rileva la parola che precede l’elemento semanticamente debole: tecniche che tendono ad annullare il segnale di fine verso, la prima spostandolo al verso successivo, la seconda arretrandolo all’interno del verso stesso. In qualche caso le due tecniche sono adottate nello stesso verso, così da farne il punto in cui agiscono, in equilibrio, una forza aggregatrice ed una disgregatrice: le si veda in azione alle pp. 30-31 di CO, ai versi "provava già paura [: figura], e/ non più attesa"4. In secondo luogo, e in conclusione: c’è da chiedersi se "apertura", "eteronomia", conflitto tra dipendenza strutturale e tensione all’autonomia non siano concetti che dal livello del verso possano estendersi a quello dei gruppi di versi che una spaziatura divide dai gruppi contigui.
Tralasciando quanto potrebbe offrire l’esame delle varianti, penso all’organizzazione di CO, in cui gruppi di liriche (da due a quattro, tre nella maggioranza dei casi) si svolgono a partire dalla descrizione di una fotografia. I legami tra le liriche e il testo che ne costituisce, in termini montaliani, l’"occasione-spinta" sono di carattere sia metrico (un uso calcolatissimo della rima, anche a collegare versi assai lontani fra loro) che sintattico (uso di pronomi e aggettivi, soggetto sottinteso); ma, come per applicazione attenuata della tecnica montaliana, l’"occasione-spinta" è posta fra parentesi. Si afferma un rapporto gerarchico (i soli incipit sono elencati nell’indice) e al tempo stesso la non imprescindibilità della relazione di dipendenza.

RODOLFO ZUCCO in "I Quaderni del Battello Ebbro", n.22, giugno 1999

Note

¹ Ricavo queste pagine da note di lettura di quanto Paolo Ruffilli ha pubblicato dal 1980, vale a dire dal poemetto Prodotti notevoli, accolto nell’Almanacco dello Specchio (Milano, Mondadori) di quell’anno (pp. 309-327). Nel presentarlo, Giovanni Giudici riconosceva una discontinuità nella produzione di Ruffilli, "il salto dalla letteratura alla poesia propriamente detta". A Prodotti notevoli sono seguiti Piccola Colazione (Milano, Garzanti, 1987; raccoglie i poemetti Malaria, Fu vera gloria?, Per amore o per forza, L’assedio di Costantinopoli Prodotti notevoli, All’infuori del corpo; = PC), Diario di Normandia (Montebelluna, Amadeus, 1990; = DN), Camera oscura (Milano, Garzanti, 1987; = CO) e il recente Nuvole ( immagini di Fulvio Roiter, poesie di Paolo Ruffilli, Grafiche Vianello – Ponzano, Treviso, 1995).

² Do i risultati di un computo metrico effettuato sui primi 550 versi di PC e di CO (fra parentesi le percentuali): trisillabi 6 (1,2): 8 (1,6); quadrisillabi 32 (6,¼): 71 (14,2); quinari 128 (25,6): 128 (25,6); senari 66 (13,2): 84 (16,8); settenari 188 (37,6): 159 (31,8); ottonari 42 (8,4): 38 (7,6); novenari 22 (4,4): 11 (2,2); decasillabi 7 (1,4): 1 (0,2); endecasillabi: 9 (1,8): 0. Ma la non pertinenza, o almeno l’insufficienza, di una descrizione di questo tipo si rivela nella difficoltà del computo metrico di versi come "In un processo in" (PC 17), "pronunciato e, nel" (PC 17), "Il sogno suo è di" (PC 34), "Alla tua età, io non" (PC 40), "di un essere a" (CO 15), "in posa su di un" (CO 22), "contento ma non" (CO 39), "davanti, che – si" (CO 40) eccetera. Tuttavia qualche tendenza è rilevabile: si segnalano la prevalenza, in CO, dei versi più brevi (i versi dalle 3 alle 6 sillabe sono qui il 58,2%, il 46,4% in PC; quelli dalle 7 alle 10 sillabe il 41,8%, il 51,8% in PC) e l’attenuazione, sempre in CO, dell’egemonia degli imparisillabi (quinari, settenari e novenari sono il 67% in PC, il 59,6% in CO).

³ G. Guglielmi, Interpretazione di Ungaretti, Bologna, Il Mulino, 1989, p. 13.

4 Si veda, anche, come la lirica La parola, per me entra nel sistema di CO: il gruppo di apertura presenta in fine dell’ottavo verso un lo stesso che va ad agire sui versi del gruppo successivo, "In un processo in/ qualche modo inverso".

La critica inquadra la sua poesia nell’ambito di un neolirismo narrativo antielegiaco, caratterizzato da una intensa ricerca di pensiero.
 
 

  Paolo Ruffilli Mail: ruffillipoetry@gmail.com >